Sanità, le liste d’attesa sono ora anche un problema politico

Cosa sta accadendo fra Governo e Regioni sul fronte della Sanità? Sì, perché mentre l’attenzione generale è attratta da vicende geopolitiche – guerre, dazi e successione di Papa Francesco – in casa nostra, fra il ministro della Salute Orazio Schillaci e i governatori delle Regioni è in atto un braccio di ferro senza esclusioni di colpi.
Non è una questione di schieramenti politici, perché la reazione regionale è trasversale: il toscano Eugenio Giani del Pd e il leghista veneto Luca Zaia la pensano allo stesso modo. Due i punti critici: le insopportabili liste di attesa per le prestazioni specialistiche e la carenza di assistenza sul territorio.
Per entrambi, una soluzione può venire dalle Case di comunità, che stanno sorgendo, seppur con velocità diverse sul territorio nazionale, grazie ai fondi del Pnrr, ma che rischiano di restare scatole vuote se non si mette mano alle risorse umane e alla loro organizzazione. Questione principale e dolente sono le liste di attesa. Il ministro ha più volte manifestato la propria insoddisfazione, fino a proporre una soluzione drastica: il commissariamento di chi non rispetta tempi accettabili.
Il Governo si era preso un impegno preciso con la legge approvata nel giugno 2024, che istituisce un organismo nazionale di verifica fino a prevedere «poteri sostitutivi dello Stato in caso di inadempienza delle Regioni». All’ultimo incontro fra Stato e Regioni, la proposta è stata rispedita al mittente. I governatori non ne vogliono sapere.
Per dirla come Zaia, «è giusto che qualcuno, a livello nazionale, venga a chiederti i dati, ma che passi l’idea che un Catone, il Censore nazionale, arriva in Veneto e sistema, come Superman, i problemi delle liste d’attesa a me non va bene». E a sostegno della sua tesi spiega come nelle due Regioni ora commissariate, Calabria e Molise, non vada meglio, così come non andava meglio nelle altre commissariate prima, Lazio, Abruzzo e Campania.
Governo e Regioni si sono presi un mese di tempo per trovare un’intesa, ma non sarà facile visto che la rottura giunge dopo cinque mesi di confronto. Senza accordo, si passerà alle carte bollate e al Tar. Il tema è scottante in sé, visto che la salute sta in testa alle preoccupazioni degli italiani, e il Governo non può permettersi di lasciarlo tutto nelle mani del centrosinistra. Qualcuno poi, non solo dall’opposizione, pensa male e insinua che l’accentramento sarebbe un modo per deviare ancor di più verso la sanità privata quel che non si permette di fare al sistema pubblico.
I Cinque stelle, facendo i conti, dicono che per tagliare le code e portare le attese al di sotto dei 95 giorni di media dei Paesi Ocse, servirebbero almeno 5 miliardi in più. Servono finanziamenti ulteriori, ma soprattutto è indispensabile una diversa organizzazione. Ed ecco la questione delle Case di comunità, che dovrebbero mettere riparo alle ampie falle nell’assistenza territoriale, ma anche evitare che ogni problema, anche non urgente, finisca al Pronto soccorso e agli ospedali.
Sono progettate come presidi strategici sia per l’assistenza a domicilio sia per quella specialistica. Ma anche su questo versante ci sono problemi pesanti. Lo testimonia l’ultimo report di Agenas, l’Agenzia nazionale dei servizi sanitari. Con i due miliardi stanziati dal Pnrr si devono costruire 1.717 Case di comunità entro giugno 2026. Di fatto oggi ne sono attive solo 46 con tutti i servizi previsti. Mentre con almeno un servizio aperto ce ne sono 485, della quali 138 in Lombardia. Il nodo più intricato, per avviarle, riguarda il personale. Gli Ospedali di comunità prevedono una presenza di infermieri 24 ore su 24. Ma dove trovarli se – secondo il loro Ordine – già ora ne mancano 60mila negli ospedali e 30mila sul territorio?
Ancor più intricata la questione dei medici. Quelli di base sono liberi professionisti convenzionati per una media di 14 ore settimanali di ambulatorio. I loro colleghi specialisti nelle Asl, pagati a ore, ne lavorano una decina a settimana. I sindacati principali sono assolutamente contrari a trasformare il rapporto dei medici di base in assunzione, contratto che li renderebbe dipendenti delle Azienda sanitarie locali e permetterebbe di imporre loro la presenza nelle Case di comunità e nelle aree più svantaggiate. Alle Regioni piacerebbe, ma il Governo non vuole affrontare la questione temendo le reazioni e il problema si trascina. Come si vede, non è solo questione di risorse.
Vi è infine una non meno forte ricaduta politica. La Sanità, infatti, è stata la prima e più importante delega che lo Stato ha affidato alle Regioni. E le Regioni se la sono presa senza alcuna remora, al punto da farne la voce preponderante dei loro bilanci. Ma è anche la dimostrazione più evidente di come può andare a finire con l’autonomia regionale, di come, senza una rigorosa politica dei livelli di servizio e della spesa, le divaricazioni fra territori siano destinate a crescere fino a diventare irragionevoli, a mettere a rischio gli stessi diritti essenziali dei cittadini. Come andrà a finire con la Sanità avrà, quindi, conseguenze dirette sul futuro dell’Autonomia regionale differenziata. Anche questo spiega la durezza dello scontro Stato-Regioni. Una mina potenziale per la tenuta della maggioranza.
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