Perché l’esercito di Assad è stato travolto ad Aleppo

La guerra in Ucraina, che drena ingenti risorse alla Russia, le campagne di Israele che han drasticamente indebolito Hezbollah e il ridimensionamento internazionale iraniano hanno creato un coacervo che, complice la Turchia, ha spinto i «ribelli» all’offensiva in Siria.
Guidata dai qaedisti/salafiti accreditatisi come «moderati» di Hts (Hayat Tahir al-Sham) e dai Fratelli Musulmani del Syrian National Army (Sna), sostenuti da Ankara, l’offensiva ha messo a nudo la debolezza del regime di Assad e soprattutto dell’Esercito Siriano, che specie ad Aleppo è stato sorpreso e di fatto sbaragliato.
Eppure sulla carta non ci sarebbe paragone tra le forze governative e quelle ribelli: le prime, infatti, dispongono di cospicue forze corazzate, meccanizzate e artiglieria, mentre le seconde utilizzano soprattutto le «tecniche», pick up su cui sono montate mitragliere, per effettuare incursioni veloci. Sono trascorsi quattro anni dalla fine della precedente crisi in Siria, ma tale tempo (nonostante la massiccia iniezione di mezzi russi nelle file governative) non è servito a correggere gli endemici e irrisolvibili problemi militari del regime.
L’esercito siriano è piccolo, poiché per ragioni di affidabilità è basato sul reclutamento dei soli salafiti (l’etnia di Assad) ovvero solo il 12% della popolazione (il 70% è sunnita): al contrario Hts e Sna negli anni hanno visto crescere capacità notevoli di inquadramento (grazie anche a non pochi «consiglieri»).

Inoltre, difetto endemico nei regimi dittatoriali, la strutturazione dei reparti della difesa è pesantemente condizionata da nepotismo e corruzione. La 4ª Divisione corazzata, baluardo di Damasco, è comandata da Maher Assad, fratello del Presidente, ma è gestita come una milizia personale ed è sempre in contrasto con la Guardia Repubblicana, più volte smembrata e ricostituita. Anche la 25ª Divisione Forze Speciali, le «Tigri», in realtà ha poco dell’elite: in realtà è una divisione di fanteria motorizzata-meccanizzata solo un po’ meglio equipaggiata del resto dell’esercito.
La debole armata di Assad ha dovuto poi questa volta affrontare un’offensiva a cui era impreparata: l’impostazione di tipo «sovietico», ovvero cedere terreno di fronte all’offensiva e consolidare una linea di difesa da cui investire gli attaccanti con fuoco di artiglieria, è andata subito in crisi di fronte all’impiego di droni suicidi che non consentono ripiegamenti ordinati e reazione efficace.
Con le milizie ribelli agiscono formazioni jihadiste kirghize, uzbeke e soprattutto cecene salafite di Ajnad al Kavkaz, rientrate dall’Ucraina, supportate direttamente dal Gur (l’intelligence ucraina), espertissimo nella gestione dei droni kamikaze e dei social media per amplificare i progressi sul campo. Un’ingerenza, quella ucraina, in atto da mesi (la spallata jihadista era certo in preparazione da tempo): lo stesso Kyiv Post, ad esempio, ha diffuso il video di un attacco del Gur a una fabbrica di droni a Nord Est di Aleppo il 15 settembre, mentre a fine luglio un’incursione era andata a segno contro il centro di addestramento sull’aeroporto di Kuweires, Est di Aleppo.
Alla per ora inarrestabile debacle hanno inoltre contribuito per mesi anche gli attacchi aerei israeliani ai depositi iraniani, di Hezbollah e siriani nella regione di Aleppo.
Come se ciò non bastasse, l’esercito siriano è in crisi di carburanti (numerosi i tank abbandonati a secco per strada): il poco petrolio prodotto è infatti nelle aree orientali a controllo Usa (che mantengono mille soldati in tre basi) e spesso viene contrabbandato.
Al di là degli sviluppi che la crisi prenderà (è improbabile infatti che i russi abbandonino il Paese, specie la base navale di Tartus, loro porta sul Mediterraneo), è l’ennesima constatazione che la difesa di un Paese funziona solo se pensata, programmata e gestita: intento più agevole nelle democrazie, in cui le forze armate sono espressione della nazione. Ma è importante farlo: l’alleato potrebbe non essere sempre tale.
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