Siria, messaggio all’Occidente: un nuovo governo, non un nuovo Isis

Era attraverso la Fortezza dei Curdi, il Krak dei Cavalieri, l’opera difensiva più prodigiosa dell’ingegneria medievale mediorientale, che l’Ordine degli Ospedalieri controllava il passo di Homs, la porta della Siria, passaggio obbligato per il Libano e per la sua fertile valle della Beqaa. Strappata ai Cristiani con l’inganno, questa fortezza che resistette a diversi assedi consentì ai Musulmani di esercitare il controllo sulle vie di comunicazione tra l’entroterra, Damasco e le regioni costiere di Latakia e Tartus.
Nomi di città antiche, con Aleppo e Hama, che ben definiscono la geografia contemporanea del potere siriano, così come scandiscono l’asse dell’avanzata, da nord a sud, delle truppe islamiste ribelli, guidate Abu Mohammed al-Golani. Un’offensiva che sta dividendo il Paese in due parti, rimettendo in discussione i fragili equilibri di potenza del Vicino Oriente e danneggiando gli interessi nazionali dei principali attori regionali, come Russia e Iran, i garanti della stabilità del regime di Assad.
Tutto lascia presupporre che i miliziani di Hayat Tahrir al-Sham vogliano marciare verso la capitale per sovvertire lo status quo: abbattere il governo laico socialista del Partito Ba‘th, guidato però da un gruppo religioso di derivazione sciita, quello degli alawiti, e fondare uno Stato Islamico di matrice sunnita. Caduta Hama e una volta presa Homs e il controllo del Krak, i ribelli avranno di fatto isolato gran parte del Paese dal porto militare di Tartus, punto focale della strategia di Mosca nel Mediterraneo sin dal 1971, tagliando le linee logistiche e di rifornimento ai russi e al regime. Si tratterebbe di un ulteriore smacco di immagine, oltre alla diminuzione di influenza nell’area che Vladimir Putin, oggi, non può permettersi.
La gravità della situazione sul campo emerge tuttavia dall’annuncio dato dall’Ambasciata russa a Damasco che invita i propri concittadini a lasciare al più presto il Paese. L’Iran, dal canto suo, ha cercato di mobilitare alcuni dei suoi attori periferici, non potendo contare sull’intervento di Hezbollah, come in passato, il che dimostra quanto le azioni israeliane in Libano siano state capace di infliggere duri colpi alle capacità militari del gruppo sciita. Teheran è determinata nel mantenere la propria influenza sulla Siria, importante retrovia per lo scenario libanese e sbocco marittimo sul Mediterraneo per la flotta della Repubblica Islamica, avendo ottenuto da Bashar al-Assad il permesso di costruire un porto sulle sue coste. Inoltre, negli ultimi tre anni, gli Ayatollah hanno investito 8 miliardi di dollari in aiuti diretti, assicurandosi contratti per la ricostruzione delle infrastrutture distrutte durante la guerra civile. Perdere la Siria significherebbe privarsi di un importante volano per un’economia asfittica piegata dall’embargo internazionale.
E poi ci sono gli attori del Golfo, sunniti, che per opera della sottile politica del saudita Mohammad bin Salman, hanno cercato di recuperare il regime siriano riammettendolo nella Lega Araba. Riyadh appare come il vero attore politico del nuovo volto del Medio Oriente, intento a generare stabilità nel momento di massima crisi, per salvaguardare i propri investimenti, volti a sostenere la politica di diversificazione della sua economia, concentrandosi sulle sfide di sviluppo comuni, le quali passano anche attraverso l’allontanamento di una perniciosa competizione antagonista, ricercata attraverso nuovi riallineamenti politico-diplomatici, prima con l’Iran, poi con il Qatar.

Fattore di destabilizzazione rimane invece Ankara, la vera Eminenza grigia dietro i ribelli. Preoccupanti le dichiarazioni del presidente Erdogan che ha offerto un messaggio di sostegno all’insurrezione, auspicando che la marcia dei ribelli continui senza problemi. Ci si comincia ad interrogare su quale potrebbe essere il futuro di una Siria senza il regime degli Assad, così come sulle reali intenzioni di Hayat Tahrir al-Sham. La rottura con al-Qaida, i manifesti programmatici, le prime azioni svolte sui territori conquistati sembrano avvalorare la tesi che la teologia non guidi in maniera assoluta il loro agire, ma che piuttosto il gruppo sia concentrato su obiettivi locali e regionali, a tratti nazionalistici, alla ricerca di una base di supporto legata all’ambiente rivoluzionario anti-Assad, senza velleità di conquiste globali.
L’apertura di canali di dialogo con parte della comunità internazionale dimostra l’intenzione di voler governare la Siria entro un sistema di relazioni con la comunità internazionale, evitando la marginalizzazione dei Talebani in Afghanistan. Ciò passa attraverso una narrativa che cerca di essere rassicurante, come i molti messaggi propagandistici diffusi volti a rimarcare il rispetto delle minoranze etnico-religiose siriane, sebbene nessuna sia stata spesa in favore delle comunità sciite, vero bersaglio dei miliziani di Hayat. Loro non sembrano ricadere tra quelle che al-Golani giura di voler proteggere: un sottile e celato messaggio forse rivolto alla prossima Amministrazione Usa. V’è insomma la volontà che l’Occidente creda che non si sia alla vigilia della costituzione di un nuovo Isis, bensì di un governo nazionale per la Siria. Per il bene della Siria e dei siriani. Ma si sa, spesso la propaganda è ingannevole.
Michele Brunelli – Docente di Storia e istituzioni afroasiatiche all’Università di Bergamo
Riproduzione riservata © Giornale di Brescia
Iscriviti al canale WhatsApp del GdB e resta aggiornato
@News in 5 minuti
A sera il riassunto della giornata: i fatti principali, le novità per restare aggiornati.
