L’ossessione militarista dell’Unione europea

Bruxelles sta lentamente cambiando l’approccio ai conflitti
Ursula von der Leyen - Foto Ansa © www.giornaledibrescia.it
Ursula von der Leyen - Foto Ansa © www.giornaledibrescia.it
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In un fortunato pamphlet di due decenni fa – «Paradiso e potere. America e Europa nel nuovo ordine mondiale», Mondadori, 2023 – Robert Kagan, un esperto di politica estera, consulente di alcuni candidati repubblicani alla presidenza degli Stati Uniti, ha teorizzato che «gli europei si illudono di derivare da Venere, mentre noi americani siamo figli di Marte» e che le guerre avrebbero fatto aprire gli occhi ai teorici astratti - in sostanza degli acchiappanuvole - della «potenza civile europea».

Una dura critica all’indebolimento degli eserciti nazionali e ad un’Europa che – questa la sua valutazione – non ha accompagnato la propria crescita economica ad investimenti militari adeguati sino a determinare in tal modo seri problemi al mantenimento degli equilibri internazionali, affidandosi prevalentemente alla diplomazia e alla mediazione a fronte di pericoli incombenti.

Dunque un ammonimento che, ad anni di distanza, pare aver trovato indubbio seguito, considerando le dinamiche in atto nell’Unione europea, nonché i progressivi mutamenti intervenuti quanto all’orientamento delle opinioni pubbliche, delle stesse culture politiche e persino all’interno dei sistemi di valore. A tal punto che Papa Francesco ha sentito il dovere di lanciare un grido d’allarme, di proporre un interrogativo angosciante: «Che cosa ti è successo Europa umanistica, paladina dei diritti dell’uomo, della democrazia e della libertà?».

Espressioni che non attengono semplicemente alla vexata quaestio delle radici cristiane, ma che interpellano quanti sono pensosi e nelle condizioni di operare in vista di una identità europea fedele alla sua storia migliore e più positiva, evolutasi nel segno di indubbie conquiste di civiltà e di progresso.

Ebbene non c’è dubbio, anche alla luce delle dichiarazioni di Ursula von der Leyen, nelle occasioni di presentazione della sua candidatura e poi del suo insediamento una volta rieletta, che la questione della sicurezza è venuta assumendo una sorta di centralità quanto alle prospettive dell’Europa in uno scenario del quale non si può certamente dare per scontato il dato della pace. «Esamineremo tutte le nostre politiche - così la Presidente della Commissione - attraverso la lente della sicurezza».

Ora non c’è dubbio alcuno che la sicurezza costituisca un obiettivo da perseguire con fermezza e determinazione, tuttavia proprio qui sta il problema. Vale a dire una impostazione prevalentemente incentrata sul piano militar-industriale che finisce coll’assegnare una dimensione subalterna all’impegno volto a costruire un’architettura politico-diplomatica della sicurezza: cooperazione internazionale, pratiche multilaterali di dialogo, rafforzamento dell’integrazione europea, sviluppo di un’autentica Europa comunitaria e, dunque, forte di capacità di attrazione e di condizionamento, in grado di metabolizzare spinte e scontri di origine nazionalistica.

Una sfida soprattutto per le culture politiche fondatrici. Esse hanno in parte perso la propria spinta propulsiva e si mostrano sempre più inabilitate a promuovere un’alternativa alla militarizzazione in corso, cioè a restituire voce alla politica sottraendo spazio alla detonazione delle armi.

Questo vale per il Partito popolare europeo che nella sua evoluzione più recente sembra smarrire l’eredità della tradizione democristiana degli Adenauer, Schuman, De Gasperi, volta a sostenere soluzioni diplomatiche delle crisi e non certo ad assecondare pulsioni militariste.

E così pure il Partito socialista europeo che è stato di Willy Brandt, di Olof Palme, di Jacques Delors, si trova in progressivo slittamento verso posizioni non solo lontane dal vecchio internazionalismo, ma rinunciatarie rispetto ad un approccio mediatorio dei conflitti, oltre che ispirate ad un atlantismo accomodante e acritico di qualsiasi scelta dell’amministrazione americana.

Si riscontra persino il paradosso di un’Europa che talora assume una linea persino più rigida di quella statunitense nei confronti degli avversari sino al punto da perseguire una sicurezza retta su di una visione parziale e schematica che finisce coll’offuscare la sua identità storico-culturale. Non si tratta, dunque, di fare appello ad un pacifismo ideologico ed inerte, piuttosto di recuperare i fondamenti dell’umanesimo europeo, di una cultura giuridica e di una sensibilità sociale. Non è infatti comprovato che più armi si posseggono e più si può essere o sentirsi sicuri.

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