Perché 80 anni dopo il 25 Aprile non è ancora una festa condivisa

Il 25 Aprile, festa della Liberazione. L’Italia si scrolla di dosso un lungo ventennio di dittatura, libertà negata, potere di un solo partito. Un partito fattosi Stato, che ha utilizzato la violenza come risorsa politica per costruire il suo dominio ed elevandola a identità di cui fregiarsi.
L’Italia, il mondo intero, si libera anche di cinque, tremendi, tragici, sanguinosissimi anni di guerra: una guerra così devastante, di uomini, di cose, di ogni bene, come mai s’era visto nella storia. E ancora: l’Italia esce dall’inferno di una guerra civile che ha fatto pagare a un’intera generazione di giovani la colpa di essere nati in tempi di barbarie.
Ce n’era abbastanza perché la data del 25 aprile potesse diventare la festa di tutti gli italiani. Dei vincitori e anche dei vinti, perché la libertà è di tutti: di chi ha combattuto per conquistarla e anche di chi ha combattuto per negarla. Invece, a ottant’anni da quel giorno di festa, a tre generazioni di distanza, siamo ancora qui ad augurarci che diventi una festa condivisa, perché condivisa non è. Augurarci va bene, ma non basta. I problemi non si risolvono con un moto dello spirito, ma con una severa analisi degli ostacoli che ne impediscono la soluzione.
Domandiamoci allora perché non s’è sedimentata in Italia una memoria condivisa, nemmeno dopo che sono uscite di scena le generazioni di combattenti, protagonisti di una lotta le cui ferite erano difficili da rimarginare.

Il fatto è che si sono messe in campo, da una parte e dall’altra, ragioni che, lungi dal curarle e rimarginarle, quelle ferite, hanno procurato di tenerle aperte, magari versando su di esse del sale. Il leader comunista Togliatti cercò con l’amnistia del giugno 1946 di creare le premesse perché la neonata Repubblica superasse i persistenti sentimenti di odio e i risorgenti propositi di vendetta che rischiavano di tenerla lacerata. La Repubblica per consolidarsi aveva bisogno di divenire la Repubblica di tutti, anche dei vinti.
Quell’atto di pacificazione restò però isolato. Contro una memoria condivisa della Liberazione congiurò la divisione politica che subentrò nel dopoguerra. Alla guerra guerreggiata seguì la guerra fredda: una guerra ideologica, destinata a lacerare l’Italia più di qualsiasi altra democrazia occidentale.
Da una parte «il mondo libero», dall’altra il mondo comunista. Per una parte la libertà era (stata) ieri liberazione dal fascismo, diventava ora difesa della libertà dal comunismo. Per l’altra parte, la libertà era stata ieri liberazione dal fascismo politico, veniva concepita come premessa e promessa di una liberazione dalle sue basi strutturali: il capitalismo. Sarebbe servito a poco, questo il ragionamento sottostante, aver vinto una battaglia se non si fosse vinta la guerra. Andavano divelte le radici del fascismo: «Ora e sempre Resistenza».

Il 25 Aprile, le cui premesse erano racchiuse in uno scrigno di valori condivisi, diviene così nel corso degli anni sorgente di divisioni politiche. Tutto ciò fino al termine della guerra fredda. Caduto il muro di Berlino, è venuta meno la contrapposizione tra mondo libero e mondo comunista semplicemente perché il comunismo non c’è più. È rimasto invece il fascismo come minaccioso sbocco autoritario di democrazie in crisi.
Il fascismo del ventennio è morto, non sono morte le destre che, nell’analisi della sinistra, spingono verso esiti illiberali, tanto più le destre che non hanno mai troncato il cordone ombelicale con il fascismo storico. La liberazione di ottant’anni fa resta secondo questa impostazione la promessa di un impegno per difendere la libertà, giudicata in pericolo dal risorgente fascismo. La liberazione dal fascismo mussoliniano resta invece a destra un motivo di imbarazzo irrisolto.
Se è vero infatti - come è vero - che la libertà nasce dalla sconfitta di chi combatté per una «causa sbagliata», è pur vero che può, sì, chiedere di avere «comprensione» storica dei vinti, non accontentarsi i di un’evasiva domanda di oblio, invocando quella pietas cristiana che si deve a tutti i defunti. Forse è ancora troppo chiedere una memoria condivisa. Smettere però di servirsi della memoria come di una risorsa politica invece di considerarla la conservazione di un patrimonio di ideali e di valori comuni potrebbe porre le premesse per fare del 25 Aprile la festa di tutti.
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