Le Province in stallo fanno comodo a tutti

Non sono morte e non rinasceranno. Nella galassia italica delle riforme incompiute la vicenda delle Province sta diventando emblematica. Tutti a dire che bisogna tornare indietro, che bisogna ridare ad esse il ruolo di Ente locale di primo livello, che fu un errore cercare di cancellarle, ma quando si arriva al dunque c’è sempre qualche intoppo, qualche blocco. E si rinvia.

Perché? Le ragioni sono almeno di due ordini, ma il mondo politico preferisce non parlarne. Andiamo con ordine. Le Province vennero messe nel mirino dalla riforma costituzionale promossa dal governo di Renzi, ministro Maria Elena Boschi. Le si voleva cancellare perché ritenute un’inutile sovrastruttura amministrativa: costavano caro e facevano quel che avrebbero potuto fare i Comuni e soprattutto le Regioni. Mentre nel 1993 si era giunti all’elezione diretta dei presidenti per conferire alle Province maggior forza e rappresentanza, nel 2013-’14 se ne progettò l’eliminazione. Ma un referendum popolare cancellò la cancellazione, nel 2016.

Nel frattempo molti italiani, indotti da una campagna propagandistica mai venuta meno, si erano convinti che le Province non esistessero più. Così non era e non è, perché in capo ad esse sono rimaste le deleghe su strade e trasporto locale, edilizia scolastica e ambiente, per dire solo dei compiti maggiori. Quindi le Province – che nel frattempo sono addirittura cresciute di numero diventando 110 – continuavano ad operare ed avevano bisogno di una sistemazione, che cercò di dare, nel 2014, la Legge Delrio.

Secondo la migliore tradizione italiana, da quel momento in poi, ogni Regione ha preso una sua strada. E oggi siamo in un contesto assai variegato, ma con qualche punto in comune, come ad esempio l’elezione del presidente e del consiglio riservata ai sindaci e ai consiglieri comunali, ciascuno con un voto di valore diverso a seconda della popolazione del Comune rappresentato. Nel Bresciano si fece strada l’idea che la Provincia diventasse la Casa dei Comuni, e da questa impostazione deriva la gestione unitaria che ha visto all’inizio un presidente di centrosinistra, Pier Luigi Mottinelli, poi Samuele Alghisi, ed ora uno di centrodestra, Emanuele Moraschini.

Tutto questo per spiegare che la situazione complessa, per non dire caotica, nonostante l’impegno e la volontà di chi si è trovato ad amministrare le Province, dura ormai da dieci anni ed ha radici quasi ventennali. Non solo da oggi si è scoperto che il sistema in atto ha ampie falle e dovrebbe essere corretto, sia per le competenze sia per la rappresentanza. Tutti d’accordo, quindi: torniamo alle Province come enti di primo livello, eletti dai cittadini. Magari non proprio come prima, cercando una struttura più snella e compiti più chiari.

La riforma c’è già, è stata anche portata in Parlamento, ma si è arenata. La Lega aveva promesso che le Province sarebbero rinate entro il 2023, contando sul gioco di sponda del Pd. Poi si disse che la rinascita sarebbe stata ufficialmente inaugurata con le elezioni amministrative del 2024, ma la presidente Giorgia Meloni (a suo tempo favorevole all’abolizione delle Province) è intervenuta direttamente per rimandare il tutto a dopo le elezioni europee. Per dare una forma più organica al rinvio, s’è detto che la riforma sarebbe dovuta entrare nel Tuoel (ma chi inventa gli acronimi romani?), cioè nel Testo unico dell’ordinamento degli enti locali. Quindi, se va bene, l’orizzonte si allunga al 2027.

Così accade che mentre si attende che sull’Autonomia differenziata si pronunci la Corte costituzionale (che ha promesso di iniziare ad affrontare a metà di novembre i ricorsi presentati da alcune Regioni prima di esaminare la richiesta di referendum), mentre di Premierato non si parla dall’estate ormai trascorsa, l’unica riforma pronta e che ha ampio consenso resta al palo.

Non è per caso. L’attuale situazione fa comodo alla politica, almeno per due ordini di ragioni, uno politico e l’altro amministrativo. Molti davano per scontato che l’elezione diretta di presidenti e consigli provinciali fosse attesa dai partiti e dai movimenti per avere ulteriore spazio di manovra su consensi e poltrone. Ma per come sono andate le cose nelle elezioni dei giorni scorsi, anche a Brescia, nei partiti in costante agitazione si è constatato che una gestione di secondo livello, passando per candidati e votanti già allenati ai giochi politici, permette manovre altrimenti più complesse.

Si giocano sgarbi, rivincite e vendette, anche all’interno di formazioni e coalizioni, si rafforzano rappresentanze di aree (più per la città e meno per le valli, ad esempio, più per i centri e meno per le zone marginali). Più facile costruire intese e allo stesso tempo giocare in proprio. Perché mai si dovrebbe tornare alla platea plenaria? L’altra spiegazione è di ordine amministrativo ed economico. In tempi di tagli alla spesa pubblica e ai servizi, per chi governa è più facile stringere (o talvolta allargare) i cordoni della borsa con enti che non hanno contraccolpi diretti di consenso. Le reazioni sono mediate e gestibili. Ecco perché anche questa riforma-controriforma probabilmente resterà a metà del guado.