Israele a Gaza City spegne ogni idea di riconciliazione

Nel Libro dei Giudici molti sono i comandanti militari e i governatori civili sollecitati da Dio per liberare una o più tribù israelitiche dalla minaccia delle popolazioni vicine. Tra questi Gedeone, il quale, grazie all’ausilio divino e una tattica sorprendente sconfisse con i suoi soli 300 uomini un esercito saccheggiatore e distruttore della Palestina.
La «sacralizzazione» del conflitto
Un esercito numeroso «come le cavallette, e i loro cammelli senza numero, come la sabbia sul lido del mare». Dalla fondazione dello Stato ebraico, le Forze di Difesa Israeliane hanno spesso intrecciato il linguaggio militare con l’immaginario religioso, costruendo una grammatica simbolica che lega la memoria biblica alle operazioni belliche contemporanee. Ciò risponde a una funzione che va oltre la suggestione culturale. Sul piano interno è un collante identitario: rinforza la percezione che Israele sia impegnato in una lotta esistenziale e necessaria, un popolo chiamato a sopravvivere nonostante l’inferiorità numerica.
Sul piano esterno il linguaggio simbolico ha invece effetti ambivalenti. Da un lato comunica determinazione e forza, dall’altro rischia di apparire come una sacralizzazione del conflitto. Il lessico biblico finisce infatti per trasformare operazioni militari in una «missione», capace di mobilitare il consenso interno, ma anche di inasprire il giudizio degli alleati. Nel 1956, durante la crisi di Suez, la campagna fu chiamata Kadesh, in riferimento al deserto attraversato dagli israeliti sotto la guida di Mosè; nel 2012 i raid contro Hamas furono battezzati Colonna di Nube, eco della nuvola che accompagnò il popolo in fuga dall’Egitto. In questa sequenza, il ricorso a Gedeone non appare casuale: rievoca l’immagine di un popolo piccolo, circondato da nemici, oggi rappresentati da Hamas, Hezbollah, gli Houti, l’Iran, ma legittimato a difendersi con determinazione quasi provvidenziale.

L’attacco a Gaza City
La realtà dell’invasione di Gaza City è però surrettizia: attaccare per difendersi. Carri armati e fanteria hanno attraversato i confini spingendosi verso aree densamente popolate e dando il via a una guerra urbana, ponendo l’esercito in una dimensione di guerra asimmetrica. Un contesto tatticamente complesso verso il quale solo l’Armata russa agli inizi del 2000 ebbe la meglio in un contesto similare: quello ceceno. Per vincere rasero al suolo Grozny, la capitale della piccola repubblica autonoma caucasica e ricorsero allo svuotamento demografico. Questa potrebbe essere una delle possibili drammatiche conseguenze dell’immediato futuro di Gaza.
Diversi gli scenari plausibili. Il primo prevede un’occupazione estesa dell’area di Gaza e il rimodellamento politico, conseguente allo smantellamento dell’apparato amministrativo di Hamas con l’imposizione di nuove strutture di sicurezza sotto controllo israeliano. Uno scenario che richiederebbe ingenti risorse e che porterebbe ad una occupazione di fatto, con pesanti ricadute geopolitiche. La nuova transizione necessiterebbe dell’ausilio economico e politico non solo di Washington, ma anche e soprattutto degli Stati arabi e le relazioni tra questi ultimi e Netanyahu, soprattutto dopo il recente attacco contro il Qatar hanno subito un grave deterioramento.

L’obiettivo dichiarato del Premier israeliano di «prendere il controllo di tutta Gaza» si traduce nella pratica in una vera e propria riconfigurazione geografica della Striscia, dove le forze israeliane stanno occupando una fascia di territorio che isola Gaza dal confine egiziano, garantendo che l’unico accesso sarà tramite Israele. In questa seconda prospettiva, tale strategia, pur promettendo vantaggi tattici immediati, rischia di trasformare Gaza in un arcipelago di enclave separate, rendendo impossibile qualsiasi forma di governance palestinese autonoma e creando le premesse per una resistenza armata di lungo periodo.
Orizzonte incerto
Il vuoto politico che si sta creando non sarà facilmente colmabile: probabilmente l’Onu e le organizzazioni umanitarie dovranno intervenire per fornire servizi di base, ma senza una legittimità politica palestinese riconosciuta. Paradossalmente, mentre Israele cerca di eliminare Hamas, il gruppo potrebbe ricostruire le proprie forze nel tempo, sfruttando la vasta rete di tunnel ancora intatta. Il risultato più probabile sarà una radicalizzazione ulteriore del conflitto, con la definitiva sepoltura di qualsiasi prospettiva di soluzione a due Stati, l’emergere di nuove forme di resistenza armata e il collasso dell’Autorità Nazionale Palestinese, la cui perdita di potere e rappresentatività faciliterebbe anche l’annessione di gran parte della Cisgiordania a Israele.
Sullo sfondo resta infine il pericolo di un allargamento regionale del conflitto, con tensioni crescenti con l’Egitto, quelle mai sopite con l’Iran e con la minaccia di Hezbollah, che sebbene ridimensionato nelle forze, conserva un arsenale missilistico considerevole e capacità asimmetriche rilevanti. L’Operazione Gedeone II, questo il nome della conquista di Gaza City, rischia di non produrre una vittoria netta per Israele, ma di accelerare l’erosione del tessuto sociale palestinese e di allontanare ulteriormente ogni ipotesi di soluzione politica.
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