La guerra dei dazi mette a rischio la crescita globale

L’imposizione di dazi sotto la precedente amministrazione Trump ha colpito la Cina, ma anche beni e prodotti europei ed altri Paesi come Canada, Messico, India e Brasile
Donald Trump - Foto Ansa © www.giornaledibrescia.it
Donald Trump - Foto Ansa © www.giornaledibrescia.it
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In questi giorni osserviamo, con un discreto livello di preoccupazione, una crescita di tono intorno a quella che è comunemente definita la nuova guerra dei dazi. Il Presidente degli Stati Uniti ha sempre manifestato una certa predisposizione a regolare le vicende del mercato interno Usa attraverso l’imposizione di dazi su svariati prodotti. Questo tema ha, conseguentemente, rappresentato uno tra i più importanti pilastri della sua vincente campagna elettorale.

Non ha destato, quindi, sorpresa il fatto che appena insediatosi alla Casa Bianca Trump abbia iniziato a minacciare Europa, Canada, Mexico e Cina di volere imporre dazi su materie prime, prodotti e servizi che gli Usa importano da questi Paesi. Naturalmente queste minacce hanno provocato la reazione di Paesi «aggrediti» i quali hanno immediatamente risposto ipotizzando, a loro volta, dazi su merci, prodotti e servizi che importano dagli Stati Uniti. Ecco, quindi, la «metafora» sulla guerra commerciale alla quale si sta facendo riferimento in queste ore.

Andando oltre il contingente, quanto possiamo aspettarci dal possibile passaggio da minacce alla concreta introduzione di dazi incrociati? Partiamo da una prima riflessione legata a quanto ha generato la precedente avventura Trumpiana su questo fronte per provare ad ipotizzare cosa potrebbe succedere nel caso questa politica fosse riproposta realmente.

L’imposizione di dazi sotto la precedente amministrazione Trump ha colpito la Cina (elettronica, macchinari, componenti automobilistici, abbigliamento e prodotti agricoli) ma anche beni e prodotti europei (alimentari, agricoli in senso ampio, aeronautica) ed altri Paesi come Canada, Messico, India e Brasile (su materie prime, acciai ed infine su prodotti agricoli) generando effetti vari sull’economia americana.

Tra questi un’inflazione legata all’aumento dei prezzi dei prodotti che il mercato Usa ha continuato ad acquistare, l’aumento del costo dell’elettricità e di alcuni beni di consumo, alcune ricadute negative sui prodotti esportati a seguito delle contromisure dei paesi colpiti dai dazi. L’insieme di questi effetti si è ritorto soprattutto sull’industria automobilistica e su quella agricola. Se nel breve periodo il pil americano ha retto in virtù di misure di stimolo dell’economia e della crescita del mercato interno, nel medio gli effetti sono stati negativi (con un recupero allorquando la nuova amministrazione americana pur non abolendo gran parte dei balzelli imposti negli anni precedenti ha negoziato modifiche ad hoc con i diversi Stati interessati).

In sostanza i risultati netti delle scelte della prima amministrazione Trump hanno finito con il generare distorsioni sui mercati (ad esempio alcune aziende hanno modificato le proprie catene di approvvigionamento per bypassare i dazi), ricadute a livello politico con un inasprimento delle tensioni tra Cina e Usa e tra questo paese e l’Europa. Questa politica ha anche aumentato il livello di incertezza economica con l’effetto diretto sulla propensione all’investimento e rallentando la crescita in vari settori.

Questi effetti sono stati previsti ampiamente ai tempi del primo Trump anche se, allora come ora, la filosofia del Presidente vedeva enfatizzati i vantaggi connessi alla scelta di proteggere l’industria nazionale rendendo più costosi i beni importati e, conseguentemente, favorendone la produzione locale anche con riferimento alla necessità di proteggere industrie in difficoltà, emergenti o in crisi per inefficienza produttiva. Vantaggi che venivano e vengono poi ad essere collegati ad una difesa dell’occupazione e alla prospettiva di incrementi nelle entrate fiscali oltre alla diminuzione del deficit commerciale della nazione.

Strategicamente l’amministrazione Trump enfatizza anche gli effetti positivi che i dazi genererebbero riducendo la dipendenza da produzione di beni fondamentali per lo sviluppo (ad esempio i semiconduttori). Sempre da questo punto di vista è palese che la minaccia di queste misure diviene anche strumento politico in senso ampio per affrontare con maggiori carte in mano negoziati commerciali, politici o (oggi) a sfondo militare.

Questa varietà di motivazioni vede un collante importante nel credo trumpiano dell’«America first» che finisce con il prevalere anche su qualche legittima e fondata riluttanza di molti economisti, vicini al Presidente, nell’imbarcarsi di nuovo in questo genere di viaggio. Proprio l’interconnessione di svariate motivazioni finisce con il mettere la sordina a chi suggerisce approcci meno aggressivi, soprattutto perché negli Usa, come in gran parte del mondo occidentale, il predominio della politica è orientato al «breve» e alla capacità di toccare le pance dei cittadini piuttosto che offrire visioni di medio lungo periodo più articolate e difficili da «apprezzare».

Alle riflessioni su quanto potrà verificarsi nelle prossime settimane, va anche aggiunto un ulteriore elemento critico legato alla difficoltà di prevedere gli effetti di una reale guerra commerciale in un contesto economico sempre più interconnesso dove le relazioni incrociate sembrano essere sempre meno facilmente analizzabili «a livello teorico» anche perché gli strumenti di interconnessione sono nuovi per la nostra esperienza storica. Così proprio come per le guerre armate il rischio che il braccio di ferro sui dazi sfugga di mano con effetti non facilmente recuperabili nel breve appare decisamente alto.

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