Opinioni

Il protezionismo di Donald Trump tra simbologia e rischi reali

Le mosse del presidente americano tra barriere commerciali, controllo digitale e nuovi equilibri economici globali, con l’Europa nel mirino
Trump mostra l'ordina esecutivo che istituisce i dazi verso Canada, Messico e Cina
Trump mostra l'ordina esecutivo che istituisce i dazi verso Canada, Messico e Cina
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È una guerra commerciale in piena regola quella che ha lanciato Donald Trump con questo primo round di dazi contro Canada, Messico e Cina. Altri ne seguiranno a breve e a venire colpita sarà l’Europa. Il Canada ha subito annunciato una serie di rappresaglie miranti a danneggiare soprattutto prodotti e industrie di stati repubblicani e altrettanto faranno gli altri soggetti coinvolti in un’escalation che potrebbe concorrere a un ulteriore destabilizzazione di un ordine internazionale di suo sempre più frammentato e instabile. Cosa ispira l’agire di Trump? Come si spiega questa decisione, rapidissima nei tempi e radicale nei contenuti (tutti i prodotti importati da Canada e Messico sono soggetti a una tariffa del 25%, con l’eccezione dell’energia proveniente dal Canada, per la quale la tariffa è del 10%)? Tre spiegazioni, tra loro strettamente intrecciate, possono essere offerte.

La prima rimanda a quello che per comodità potremmo definire il fondamento ideologico del trumpismo e a come questo concorra a una specifica definizione dell’interesse nazionale e delle politiche atte a tutelarlo e promuoverlo. Se valutate con questa lente, le tariffe di Trump appaiono più un fine che un mezzo. Servono a sostanziare il crudo nazionalismo che il Presidente ambisce a incarnare, esibendo forza, risolutezza e decisionismo. Lo evidenzia anche l’ennesimo strumento esecutivo a cui Trump ha fatto ricorso, una legge del 1977 che permette al Presidente di adottare sanzioni economiche in casi di emergenza nazionale, mai utilizzato per imporre tariffe che, a termini di legge, dovrebbero invece passare attraverso un processo tortuoso e non breve per essere approvate e messe in atto.

Questa ideologia concorre a definire i parametri non di rado binari e grossolani con cui Trump misura la competizione di potenza e la posizione degli Usa nel mondo. Uno dei più importanti sono le bilance commerciali bilaterali, con i deficit a segnalare una condizione di debolezza da correggere quanto prima. Assieme alla Cina e all’Unione Europea, il Canada e il Messico sono i principali partner commerciali di Washington. Dopo UE e Cina, è oggi il Messico ad avere il più ampio surplus commerciale con gli Usa, poco più di 170 miliardi di dollari nel 2024, una cifra quasi raddoppiata negli ultimi 5 anni. Le tariffe servono quindi per modificare uno stato di cose che, nell’iper-semplificato universo trumpiano, indicherebbero una inaccettabile sconfitta degli Stati Uniti. Le tariffe sono però anche un mezzo per Trump.

E questo ci porta alla terza e ultima spiegazione. Esse hanno chiaramente una valenza punitiva e sanzionatoria. Sono, nelle ambizioni, strumenti di pressione con cui piegare alla propria volontà chi ne è vittima. A Messico e Canada si intima di modificare le proprie politiche migratorie e di esercitare un controllo più rigoroso sui propri confini (anche se nel caso del vicino settentrionale, l’impressione è che si voglia soprattutto umiliare un avversario politico come Trudeau). All’Europa si chiede di contribuire più fattivamente al piano di disaccoppiamento delle economie occidentali da quella cinese e di abbandonare i suoi piani di regolamentazione della big tech statunitense. Il tutto facendo leva su un asset egemonico centrale, ma spesso dimenticato, per gli Usa contemporanei: i loro consumi e un mercato che negli ultimi decenni ha spesso trainato la crescita globale.

Della funzione di questo mercato, che il resto del mondo ha in fondo sussidiato finanziando una parte crescente del debito Usa, Trump non sembra avere piena contezza. Né pare averne dei tanti effetti collaterali che una guerra commerciale può avere per gli Usa e i suoi cittadini, dall’impatto sui prezzi e le spirali inflattive che potrebbero conseguire agli effetti sulle tante aziende statunitensi che importano beni intermedi sino all’effetto distruttore su catene nordamericane di valore altamente integrate (si pensi solo all’automobilistico). Prevalgono l’ideologia, la simbologia e il malinteso e rozzo convincimento che la politica commerciale globale sia un gioco a somma zero e le relazioni internazionali una sorta di giungla dove domina il più forte. L’Europa è la prossima. E sarebbe giunto il momento per chi la guida, a partire da von der Leyen, di prenderne atto e agire di conseguenza.

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