Il flop referendario boccia la strategia dell’opposizione

La politicizzazione eccessiva dei quesiti dell’ultimo referendum ha finito per rivelarsi un boomerang: un regalo delle minoranze di sinistra alla maggioranza di destra
Le cabine elettorali - Foto Marco Ortogni/Neg © www.giornaledibrescia.it
Le cabine elettorali - Foto Marco Ortogni/Neg © www.giornaledibrescia.it
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Istantanee da un dopo referendum. E da un post-elezioni amministrative, ma in questo caso si potrebbe dire: 1 (Taranto) a 1 (Matera), e palla al centro dopo le vittorie del centrosinistra nel primo turno.  Mentre al referendum il vincitore, come avviene dal 1995 – e con la sola eccezione della consultazione sull’acqua pubblica andata in scena nel giugno del 2011 –, ha coinciso con l’astensione, ennesimo segnale di un (grosso) problema nella partecipazione dei cittadini ai processi elettorali.

Si tratta di quella situazione che Maurizio Landini ha etichettato di nuovo, proprio commentando il voto referendario di domenica e lunedì scorsi, con la formula della «crisi democratica», riconoscendo di non avere raggiunto il quorum, ma - al pari degli altri attori del comitato referendario - insistendo sul patrimonio di voti ottenuti. Un dato innegabile nel suo caso, anche se a rigor del vero il suo ruolo non è quello del leader di un partito.

Maurizio Landini, segretario generale della Cgil, dopo il referendum - Foto Ansa © www.giornaledibrescia.it
Maurizio Landini, segretario generale della Cgil, dopo il referendum - Foto Ansa © www.giornaledibrescia.it

Ma – per l’appunto – tali dichiarazioni chiariscono e rendono esplicite alcune delle motivazioni che lo hanno spinto a rompere l’unità sindacale una volta di più per «contarsi» e mostrare di quanto consenso disponga la Cgil su quel terreno anfibio tra movimentismo e politica che gli è consono.

Ancora più problematici risultano i calcoli in tal senso da parte dei protagonisti del sinistracentro, che hanno inseguito «senza se e senza ma» Landini, sicuramente con la finalità principale per Elly Schlein di poter esibire una capacità di ricompattamento generale dell’opinione pubblica di sinistra, ma che si erano spericolatamente spinti a vaticinare una «valanga elettorale» corrispondente a un «avviso di sfratto» nei confronti di Giorgia Meloni. Salvo dichiarare ex post una scarsa convinzione di fondo intorno alla possibilità del conseguimento del quorum.

E l’impressione è che dalle parti del sinistracentro non si voglia riconoscere – come sarebbe doveroso – che la politicizzazione eccessiva di questi quesiti abbia finito per rivelarsi un boomerang, e abbia generato quello che è stato (pur nell’ovvio e doveroso rispetto di tutti i votanti) un flop. Convertire una serie di referendum su aspetti molto tecnici del mondo e del mercato del lavoro – peraltro in una fase nella quale, come ricordava dati alla mano Tito Boeri, i licenziamenti si trovano al minimo storico – è stato in verità un errore politico-strategico, che ha trascinato nella disfatta pure la tematica dell’accorciamento dell’acquisizione della cittadinanza per gli stranieri, divisiva finché si vuole (lo mostrano le perplessità anche in seno all’elettorato progressista), ma chiara nella sua formulazione binaria e, per l’appunto, referendaria.

E, dunque, bene farebbero i leader del sinistracentro a compiere un’analisi razionale del voto, dalla quale emergerebbero, per esempio, in maniera chiara le difficoltà a parlare al centro e ai settori moderati dell’opinione pubblica. Questi referendum sono stati giocati fondamentalmente nella chiave del richiamo identitario, comprensibile ideologicamente e fruttuoso in termini di riconferma degli elettori già fidelizzati, ma totalmente inadatto a oltrepassare i propri confini abituali.

E, non per nulla, il Movimento 5 Stelle si è mobilitato meno del dovuto, e ha lasciato «libertà di voto» sul quesito relativo alla cittadinanza, ribadendo per l’ennesima volta la propensione contiana a tenere i piedi in più staffe.

Dall’altra parte quasi non si contano le sbavature e sgrammaticature istituzionali dei giorni scorsi (e di quelli odierni post-voto), ma il governo esce indiscutibilmente rafforzato dalla consultazione e, come hanno annotato criticamente alcuni esponenti riformisti dem, l’esito dei referendum ha finito per tramutarsi in un regalo delle minoranze di sinistra alla maggioranza di destra.

Il flop referendario comporta, dunque, in tutta evidenza, anche un giudizio negativo e una bocciatura del modo di fare opposizione, ed è precisamente su questo che dovrebbero riflettere i leader delle sinistre, capaci di fare il pieno nelle piazze, ma in grossa difficoltà nel farne delle rampe di lancio per riempire pure le urne nella prospettiva dell’alternanza di governo. Che non passa sicuramente per un’escalation della radicalizzazione, sulla quale le destre continueranno sempre a determinare l’agenda, riuscendo al contempo ad apparire (seppur assai paradossalmente) «rassicuranti» per un numero più elevato di italiani.

Massimiliano Panarari, sociologo della comunicazione, Università di Modena e Reggio Emilia

Riproduzione riservata © Giornale di Brescia

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