Disarmare Hamas e contenere i coloni: a Gaza la tregua è fragile

Da quando nel giugno 1967 Israele conquistò la Cisgiordania e Gerusalemme Est, tre fili hanno tessuto la trama instabile del conflitto: il regime militare nei Territori, l’espansione degli insediamenti e il fragile status quo sul Monte del Tempio/Spianata delle Moschee, affidato alla custodia religiosa giordana.
Moshe Dayan, allora ministro della Difesa, scelse una formula di compromesso: ai musulmani la preminenza culturale, ai non musulmani la visita in orari contingentati, allo Stato d’Israele il controllo di sicurezza e la sovranità, secondo la propria legislazione, su Gerusalemme Est. Fu una soluzione funzionale, mai pienamente codificata, pensata per disinnescare il potenziale esplosivo del luogo più sensibile del Medio Oriente.
Ma mezzo secolo dopo, tra nuove ondate insediative, governi israeliani sempre più sbilanciati a destra, crisi dell’Autorità Nazionale Palestinese (Anp) e la resilienza militante di Hamas, quel fragile equilibrio è sottoposto alla prova più dura dalla seconda Intifada, scatenata dalla visita di Ariel Sharon proprio sulla Piana delle Moschee.
Heartwarming scenes unfolded in Gaza as Israel released five Palestinian prisoners under a fragile ceasefire with Hamas, reuniting them with their families.
— Al Jazeera English (@AJEnglish) November 4, 2025
They were freed hours after Gaza’s health ministry received the bodies of 45 Palestinians returned from Israel. pic.twitter.com/dfpzZ0aJ3o
Ieri la presenza di oltre 450 coloni nei cortili della Moschea di al-Aqsa per una serie di sedicenti visite guidate dall’intento palesemente provocatorio comprovate dalla celebrazione dei rituali talmudici, non ha fatto altro che reiterare il livello di tensione tra le comunità, mettendo a serio rischio l’equilibrio concepito da Dayan. I coloni israeliani rappresentano solo uno dei due fattori fondamentali dell’equazione della tregua. L’altro è Hamas, ovvero il suo disarmo. Se Gaza è l’urgenza, la Cisgiordania misura la pressione profonda e la persistenza del conflitto. Nel 2025 gli incidenti legati all’aggressività dei coloni hanno toccato livelli senza precedenti, intrecciandosi con vaste operazioni militari israeliane a Jenin e Tulkarem, che hanno provocato la più ampia ondata di sfollati interni dalla Guerra dei Sei Giorni.
La stagione della raccolta delle olive, termometro sociale dell’economia rurale palestinese, è stata nuovamente strozzata, tra accessi negati, aggressioni e confische. In parallelo la rete degli insediamenti israeliani, con oltre mezzo milione di coloni ebrei in Cisgiordania e più di duecentomila a Gerusalemme Est, continua a infittirsi con avamposti legalizzati ex post e nuove pianificazioni, erodendo la contiguità territoriale, ormai quasi utopistica, di un futuro Stato palestinese.
All’interno del fronte nazional-religioso israeliano, c’è chi sostiene che una presenza più visibile e assertiva di gruppi e attivisti ebrei sia sul Monte, a volte guidati da ministri in carica, sia in Cisgiordania, produca un «effetto stabilizzante»: deterrenza e normalizzazione: la fine delle «ambiguità» di una possibile progettualità nazionale palestinese. Ogni gesto identitario sulla Spianata, ogni violazione verso gli abitanti della Cisgiordania toglie legittimità all’Anp e dà forza alla narrativa della resistenza propugnata da Hamas o dalla Jihad islamica.
Ed è proprio il disarmo di questi attori non statuali a rappresentare l’altro vero problema, contralto paradossale a quello dei coloni israeliani, che continuano a riarmarsi. C’è un profondo iato tra la realtà del disarmo di Hamas e il dettato del Piano Trump, che immaginava una rapida smilitarizzazione della Striscia affidata a una Forza Internazionale di Stabilizzazione, ma senza chiarire chi dovesse garantirla, con quali mezzi o secondo quali tempi. In assenza di un consenso politico palestinese, di una riforma credibile dell’Anp e di un coordinamento regionale con Egitto, Giordania e Paesi del Golfo, quella previsione rischia di restare un esercizio teorico.

Hamas, che conserva migliaia di uomini armati e potere politico esclusivo, consolidato dopo la mattanza all’indomani della tregua non ha alcun incentivo a deporre le armi senza garanzie politiche e di sicurezza territoriale. La complessa rete sotterranea fatta di tunnel ancora operativi, spina dorsale logistica e difensiva del gruppo, rende ogni consegna d’armi parziale e reversibile. Disarmare il movimento non è un’operazione di polizia, ma un progetto politico-securitario che richiede un orizzonte di statualità, una forza terza con mandato incisivo e un sistema di verifiche continue.
Un disarmo forzato produrrebbe frammentazione; un mancato disarmo perpetuerebbe instabilità e traffici. L’unica via realistica è una sequenza di disarmo, smobilitazione e reintegrazione, sostenuta da un contenimento efficace in Cisgiordania e da una gestione condivisa dei luoghi sacri di Gerusalemme. Solo così sarà possibile, come intuì Moshe Dayan nel 1967, disinnescare i simboli, e oggi anche taluni attori, per rendere realizzabile la costruzione di un nuovo Medio Oriente.
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