Il centrodestra cresce ma è cambiato, il campo largo si assottiglia

È tempo di bilanci politici per il 2025. L’anno è stato caratterizzato da una lunga tornata di elezioni regionali che permette di fare un bilancio dei voti di lista espressi nelle sette regioni, comparandoli con i risultati delle precedenti consultazioni analoghe ma anche con politiche ed europee.
Il quadro denota - lo anticipiamo subito - una certa stabilità dei poli, unita a rimescolamenti interni dei rapporti di forza. In pratica, la dinamica verso l’esterno è presente e vistosa solo nella cessione di voti dalle coalizioni all’astensione, mentre è nulla nell’interscambio fra le due «corazzate» politiche. All’interno, invece, i poli mostrano un dinamismo che ha la sua maggiore espressione nel rapporto di forza altalenante fra Pd e M5s, ma anche in parte fra FdI e alleati. Il voto del 2025 ha visto il centrodestra attestarsi sul 46,7% di lista, contro il 45,4% delle precedenti Regionali, il 42,8% delle Politiche e il 45,5% delle Europee: un progresso non enorme, ma che nella Prima Repubblica sarebbe stato eccezionale, mentre ora è solo un segno che la coalizione Meloni progredisce lentamente ma costantemente.
Il «campo largo», dal canto suo, stavolta si è costruito nelle regioni, faticosamente, dando come risultato complessivo di lista (quello relativo ai presidenti è invece di parità - tre a tre - col centrodestra, mentre la Val d’Aosta è andata agli autonomisti) il 49,3% dei voti, a fronte del 50,4% della scorsa volta (Politiche 51,4%, Europee 51,9%): in sintesi, se il centrodestra ha stavolta l’1,1% in più rispetto alla media delle tre elezioni del nostro raffronto, il campo largo ha l’1,9% in meno. In pratica, se queste indicazioni sono corrette, il divario fra i due poli è aumentato di tre punti a favore della Meloni, anche se, probabilmente, a livello nazionale oggi finirebbe sostanzialmente pari (nel 2022 il centrodestra aveva meno voti di quelli, sommati, del campo largo).
Nel centrodestra è andata bene soprattutto Forza Italia, che sale dal 6,4% delle Regionali precedenti all’8,7% delle Politiche, al 9,1% delle Europee e all’attuale 9,3%; se si eccettua il Veneto, nelle altre sei regioni gli azzurri arrivano addirittura al 10,1%, guadagnando circa un punto su Politiche ed Europee e tre sulle Regionali.
#Schlein: con un disegno comune l'alternativa c'è ed è competitiva#regionali pic.twitter.com/Gk3MNZnnwW
— askanews (@askanews_ita) November 25, 2025
Il dato della Lega è a due facce: in sei regioni la percentuale del partito di Salvini è appena al 6,5% (Europee 6,6%, Politiche 5,8%, precedenti Regionali 12,2%), con una perdita netta di voti assoluti rispetto a tutte le precedenti consultazioni; includendo il Veneto e i duecentomila voti di preferenza portati da uno Zaia che nel 2020 aveva una sua lista (44% dei consensi in regione) si arriva nelle sette regioni ad un complessivo 13% per il Carroccio, cioè a 998,7mila voti che sono inferiori a quelli delle Regionali 2020 (13,2% 1,213 milioni di voti, rilevando anche che la lista Zaia ebbe un altro 13% con 1,2 milioni di voti) ma non alle Politiche (8,1%, 198mila voti in più, cioè le preferenze 2025 di Zaia) e alle Europee (8,2%: in questo confronto Salvini guadagna centomila voti al netto dell’effetto Zaia).
Nel complesso si può dire che la gestione della vicenda legata al «pensionamento» del presidente veneto uscente ha portato al Carroccio un risultato locale capace di compensare quelli meno brillanti delle altre sei regioni. Discorso diverso per Fratelli d’Italia, che partiva dal 10,4% delle scorse Regionali e che alle Politiche aveva il 24,9%, per salire alle Europee al 27,8% e oggi ridiscendere al 18,1% (con una buona quota delle liste dei presidenti FdI può essere stimato al 20, massimo 21%). Del resto, la Meloni ha dovuto sacrificare candidature blindate (come quella in Veneto, che FdI voleva e ha dovuto cedere di nuovo all’alleato leghista) perché la stabilità di governo e maggioranza vengono prima di tutto (il ragionamento è che i voti torneranno al partito della premier, quando le elezioni saranno nazionali).
Nel campo largo pesa molto la debolezza dei Cinquestelle: la candidatura di Fico non è sufficiente a migliorare il 7,4% delle scorse Regionali (anzi, stavolta la lista del M5s ha avuto un 5,9% che può avvicinarsi al 7% solo considerando anche la lista Fico in Campania); la differenza col 19,7% delle Politiche e il 12% delle Europee fa capire che alle elezioni locali il centrosinistra classico prende il sopravvento (e molti voti di area) mentre in quelle nazionali il M5s ha ancora uno spazio intorno al 10-12%.
Nel complesso, benino le liste centriste (7,5% contro il 6,9% delle Politiche, il 4,6% delle scorse Regionali e il 7,8% delle Europee) e un risultato a due facce per il Pd: 26,7% (comprese liste del presidente) contro il 31% del 2020 (l’effetto dei potenti governatori uscenti di Puglia e Campania ha pesato) ma un netto progresso in confronto al 18,3% delle Politiche e al 24,9% delle Europee. Avs è altalenante: col 4,8% va meglio che alle Politiche (3,3%) e alle scorse Regionali (4,4%) ma non arriva al 6,2% delle Europee.
Infine, una nota sull’affluenza: il 44,8% nelle sette regioni è un record negativo, con ben 3,8 punti di partecipazione in meno rispetto alle Europee, 12,5 in meno sulle scorse Regionali (che possono essere considerati circa 7 perché ci fu in alcuni casi, nel 2020, la coincidenza col referendum costituzionale sul taglio dei parlamentari) e ben 16,2 punti in meno delle Politiche. Stavolta, nelle sette regioni, gli elettori erano diciannove milioni e 121mila: di questi, hanno votato 8 milioni e 565mila, ben un milione e centomila in meno rispetto alle Europee (che erano state disastrose, come si è visto in precedenza). Il non voto, insomma, non governa ma vince.
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