La prova (fallita) di Carlo Calenda al centro

Tra la nostalgia dell’agenda Draghi e il sogno del sistema elettorale proporzionale
Carlo Calenda - Foto Ansa © www.giornaledibrescia.it
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L’invito di Calenda ai riformisti del Pd, ai centristi terzopolisti (Renzi escluso) e a Forza Italia a dar vita ad una «coalizione dei volenterosi» riflette tre esigenze: la prima, la necessità di rappresentare quell’area politica che è senza alcun dubbio o ripensamento schierata su una linea europeista e filoatlantica e a favore dell’Ucraina; la seconda, l’opportunità di rifarsi all’«agenda Draghi» e, sostanzialmente, di riprodurre la formula (stavolta con Gentiloni presidente del Consiglio) che portò l’ex presidente della Bce a Palazzo Chigi, partendo dal centro per andare ad aggregare via via i soggetti politici limitrofi; la terza, il desiderio - che forse sarebbe stato espresso anche con la richiesta di un ritorno alla proporzionale, sulla quale la Meloni non si è pronunciata - di spezzare il sistema forzosamente bipolare per tornare a un meccanismo nel quale «chi si somiglia si piglia» (quindi senza la Lega nel centrodestra e senza il M5s nel centrosinistra, ma più in generale senza questi due partiti in qualunque coalizione di governo).

C’è però anche un quarto elemento, che certo non poteva non irritare la Schlein: la volontà di scorporare dal Pd l’ala riformista serve a marcare ancor di più quel che il partito della neosegretaria è diventato (si veda il voto all’Europarlamento sul Libro bianco sulla difesa) e sollecita, di fatto, la creazione di una nuova «Margherita» che si andrebbe a separare dal «nuovo Ds» (il Pd), archiviando così il progetto veltroniano (già abbastanza superato, peraltro).

La Schlein non vuole perdere l’ala destra del partito, anche se non ha molto in comune con i riformisti; però, se ciò accadesse, il Pd finirebbe schiacciato su Avs e M5s, con nefasti effetti elettorali (gli uscenti si porterebbero via consensi e la candidatura a Palazzo Chigi per il «campo progressista» potrebbe essere in bilico fra Conte e Schlein - con i loro partiti quasi alla pari - per un pugno di voti).

Inoltre, la Schlein non gradisce perché il punto fermo della segretaria è che la nuova coalizione di centrosinistra si costruisce partendo dall’asse Pd-M5s, mentre Calenda vuole veder sparire (letteralmente) i pentastellati.

Questa mossa del leader di Azione ha, come abbiamo spiegato, molte motivazioni razionali, ma le ricadute sul mondo politico sono state disastrose: il «campo largo» perde un 3-4% di voti e probabilmente pure le prossime elezioni; il Pd è spinto ancor più a dipendere dal M5s, a meno di uno stravolgimento che porti all’elezione di un nuovo segretario e alla fine dell’alleanza ambigua con i pentastellati; Forza Italia non vuole creare un campo centrista al quale - senza compromettersi con altri partiti - già attinge consensi; i riformisti del Pd sanno che uscendo dal partito farebbero la fine di Renzi (il quale, forse, è tentato di rientrarci).

In sintesi, Calenda ha perso questa battaglia, anche se in futuro, con la proporzionale, potrebbe vincere la guerra e ritrovarsi indispensabile per far nascere una maggioranza di governo. Ma perché la Meloni, che ha vinto le elezioni del 2022 con molto meno del 50% dei voti (e che ancora sta con i suoi alleati sul 46-48%) dovrebbe accettare una legge elettorale proporzionale che sfascerebbe i poli e le impedirebbe di tornare a Palazzo Chigi?

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