Il riarmo dell’Europa e le nuove divisioni politiche in Italia

In tempi complicati e drammatici come questi in cui la guerra è un tema reale e non ipotetico, la politica estera irrompe nel dibattito pubblico nazionale con effetti profondamente divisivi. È sempre stato storicamente così e anche senza ritornare agli scontri tra interventisti e neutralisti prima della Grande Guerra, basta ricordarsi la drammaticità dello scontro parlamentare nel ’49 sulla adesione dell’Italia alla Nato, quando la guerra era «fredda» ma non per questo meno feroce, e grandi partiti storici come il socialista si spaccarono in due, persino la Dc ebbe una emorragia sulla sua sinistra mentre il Pci di Togliatti si allontanava definitivamente dall’area di Governo.
In qualche misura ciò si sta ripetendo nello scenario politico italiano del momento, già fragilissimo e costantemente sul punto di esplodere. Sul riarmo dell’Europa e sul ruolo dell’Italia in esso si stanno formando schieramenti trasversali che terremotano le due coalizioni, quella di maggioranza (che tale è anche ufficialmente), e quella di opposizione (che tale non è ma pure ambirebbe ad essere).
Da una parte, dalla parte del piano di VdL e degli 800 miliardi da destinare alla difesa, si schiera Forza Italia col suo ministro degli Esteri Tajani insieme ai centristi di destra e di sinistra, a settori della Lega in polemica sotterranea o esplicita con Salvini, e anche ad un pezzo del Pd, quello riformista e moderato. Dall’altra parte contro il riarmo, contro il «bellicismo», incuranti dell’accusa di flirtare nel nome del pacifismo con Putin, o in quello del sovranismo con Trump, stanno i Cinque Stelle, la Lega – di nuovo l’asse del vecchio governo giallo-verde di Conte e Salvini – insieme alla sinistra radical-ambientalista di Fratoianni e Bonelli, alla Cgil di Landini, ai movimenti di piazza Pro-Pal e, da ultimo, alla sinistra del Pd che nelle ultime posizioni di Elly Schlein ha preso distintamente la strada della polemica contro qualunque ipotesi di riarmo e di impegno europeo sul campo in Ucraina modello Macron. E Meloni?
La presidente del Consiglio sta probabilmente nella posizione più scomoda: la sua vicinanza politica con Trump, la sua aspirazione ad essere un interlocutore privilegiato del nuovo corso di Washington in funzione di pontiere con Bruxelles, sono messe ogni giorno più in difficoltà da quello che forse Giovanni Spadolini avrebbe potuto battezzare «L’Oceano più largo», cioè dall’allontanamento delle due sponde transatlantiche che hanno costituito il «sistema» democratico-occidentale nel secondo Dopoguerra.
Più quelle sponde si allontanano, più Meloni si troverà costretta a scegliere, e non sarà facile perché andrà a fare i conti con la trasversalità degli equilibri politici «reali» che si stanno costituendo a Roma. Quindi, diciamo, una difficoltà nella difficoltà, situazione oltremodo pericolosa per un Paese cruciale come il nostro, affondato nel Mediterraneo, che è stato per decenni fedelmente atlantista ed europeista insieme ma nello stesso tempo tanto duttile da dialogare con l’Est (Togliattigrad) e con il Sud (Arafat ma anche Rabin). Un Paese così nei tempi del ferro si trova a mal partito, e rischia di dover recitare il mortificante copione dell’ambiguità.
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