Lega e Movimento 5 Stelle, convergenze in politica estera

Tempo fa, avevamo ipotizzato che l’arrivo di Trump alla presidenza degli Stati Uniti d’America avrebbe finito per rimuovere alcuni ostacoli alla concordia fra i partiti italiani e nei poli. Infatti, non si poteva immaginare che Trump avrebbe fatto sua, parola per parola, la narrazione di Putin e avrebbe esaltato la legge del più forte (in base alla quale un Paese piccolo «provoca la guerra» semplicemente se reagisce di fronte all’aggressione brutale di un Paese più grande, invece di arrendersi senza condizioni) e messo in difficoltà un po’ tutti gli atlantisti, accentuando inoltre le differenze di visione nei due poli fra i partiti «diversi» (la Lega nella destra, il M5s nel centrosinistra) e gli altri. Si pensava che, trovata una ragionevole soluzione per chiudere entrambi i conflitti (c’è anche quello israelo-palestinese) la politica estera non sarebbe stata più un tema divisivo (anzi, forse non se ne sarebbe più parlato).
Invece la realtà è ben diversa. Aver sposato la linea di Putin scaricando Zelensky in modo abbastanza volgare ha permesso a Trump di cambiare in un colpo solo la politica atlantica (o quel che ne resta) in vista di un «appeasement» con la Russia. In questo modo, i partiti che – come la Lega – sono sempre stati filorussi anche durante la guerra (sia pure con qualche riserva dettata dall’esigenza di non sfasciare la coalizione di governo) e quelli che – come il M5s di Conte – non avevano dimenticato l’apprezzamento di Trump per il leader pentastellato (forse – ma è l’ipotesi dei maliziosi – quel «Giuseppi» era il ringraziamento per aver permesso a rappresentanti americani di venire a indagare a Roma in cerca delle prove di un complotto: non si è mai capito) e neppure l’offerta russa di «dare una mano» all’Italia ai tempi del Covid (un fatto che resta controverso, perché avrebbe dovuto avere uno scopo solo sanitario, ma non si è mai saputo se tutti quei militari arrivati da noi si sono occupati di altro).
Sta di fatto che Trump ragiona secondo una logica «amico-nemico» (dove l’amico è chi lo asseconda o chi gli fa comodo, mentre è nemico chi gli dice cose non gradite o chi, come Zelensky, nel 2019 non diede al leader americano le prove richieste contro il figlio di Biden): la stessa Meloni, in questi giorni, fa molta attenzione a non finire nella lista nera, sfumato il ruolo di «pontiere» fra Europa e Usa. Tornando all’Italia, è chiaro che la vicenda ucraina finirà molto peggio del previsto e che – se a destra una sintesi si trova sempre, perché la cosa più importante è la coesione e la permanenza al governo – a sinistra ormai il ruolo di Conte e del M5s non appare compatibile con un’ipotesi di «campo largo». Si riaffaccia, velatamente, quell’asse gialloverde che sostenne il governo Di Maio-Salvini-Conte nel 2018-19 e che fu all’opera anche quando nel 2021 si trattò di boicottare l’ascesa di Draghi al Quirinale.
Il fatto che i due partiti si differenzino dai loro alleati ha anche un significato tattico: se il M5s entrasse nel centrosinistra finirebbe per recitare un ruolo di secondo piano, perdendo ancora più consensi, così come succederebbe alla Lega se sposasse la linea di Meloni o quella di Tajani. Considerando che alle Politiche del 2018 e alle Europee del 2019 (con diverse proporzioni di voti fra i due partiti) M5s e Lega superavano il 50% dei consensi e che ora raggiungono a stento il 20%, si capisce che questa politica di differenziazione serve a recuperare terreno, anche se finora non se ne vedono i frutti. Mentre però Conte è stato cauto su Trump e Putin, Salvini è partito all’assalto con un totale appiattimento sulle posizioni di Trump e Musk, aggiungendo anche un discutibile appoggio all’AfD tedesca (senza contare il silenzio di fronte alle parole ingenerose che sono arrivate dalla Russia nei confronti di Mattarella). Quanto sta accadendo ora in Italia, dunque, sul fronte gialloverde, è perfettamente spiegabile e coerente col passato.
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