Il tramonto del campo larghissimo e le nuove strategie pentastellate

Come si era già visto in occasione del referendum, in merito al quesito sull’immigrazione, il «campo larghissimo» del centrosinistra perde ogni giorno una ragione di esistere. La presa di posizione a favore della collaborazione con la Russia per l’acquisto del gas e la manifestazione all’Aia contro il riarmo dell’Ue segna il definitivo passo del M5s che pone i pentastellati fuori dalla linea di politica estera europeista, atlantista e filoucraina dei partiti di centrosinistra. In queste condizioni, un’alleanza elettorale alle politiche che andasse da Conte a Calenda non sarebbe solo impossibile, ma irragionevole e profondamente contraddittoria.
La Schlein - che ha impostato tutta la sua linea di segretaria del Pd sull’apertura totale e quasi incondizionata ai pentastellati - aveva aperto ad un dialogo con la Meloni, nel pieno di una crisi internazionale che di solito richiede almeno un minimo di confronto costruttivo fra maggioranza e opposizione, fermi restando i rispettivi ruoli.
Conte ha capito che questa mossa avrebbe creato una sorta di «dualismo bipolare» con Meloni e Schlein al comando dei rispettivi poli (esattamente ciò che vorrebbe la premier con la riforma elettorale, tramite la quale si inserirebbe il nome dell’aspirante presidente del Consiglio a fianco dei partiti coalizzati) ma la linea di politica estera pentastellata non è una reazione, bensì un «attacco preventivo» ad un quadro politico che non contempla gli spazi immensi di manovra e di condizionamento che il leader pentastellato vorrebbe avere.
Per semplificare, Conte agisce su tre piani: nei confronti della Meloni, vuole porsi come unico e principale oppositore, «polarizzando» ma a suo vantaggio, predisponendosi come candidato naturale per scalzare la leader di FdI da Palazzo Chigi; con le sue iniziative restringe sempre più gli spazi di movimento ad una Schlein che ha il doppio dei voti del M5s, cercando di esercitare un’egemonia politica e programmatica sull’intera opposizione, schiacciando il Pd nella speranza di sottometterlo; crea i presupposti perché i centristi si autoescludano da ogni possibile fronte di opposizione, aumentando il peso specifico del M5s (anche provando ad «annettersi» AVS, che però ha una sua specificità e non sembra prestarsi a regalare a Conte l’egemonia nel «campo progressista»).
C’è poi l’opportunismo elettorale: una parte degli elettori è contro l’Europa e non ama l’Ucraina, però finora è stata la Lega a conquistare parte di quei voti, mentre ora Conte vuole vendicarsi dell’«Opa ostile» che alle Europee del 2019 Salvini fece sui voti di mezzo della maggioranza gialloverde (spostandoli in massa dal M5s al Carroccio); così si spiega anche l’ambiguità sull’immigrazione. Insomma, il Conte di oggi potrebbe benissimo tornare a presiedere il suo primo governo, ma non il secondo (dove c’era il Pd e la linea era diversa, anche sull’Europa e sulle spese militari).
O l’Europa porrà fine alle guerre o le guerre porranno fine all’Europa! pic.twitter.com/owyEk91Qgw
— Giuseppe Conte (@GiuseppeConteIT) June 23, 2025
Più piccolo diventa il campo progressista, maggiore è la fetta pentastellata (ma, soprattutto, più forte è l’influenza di Conte, che diventa essenziale per non far fare al Pd la fine ingloriosa delle Politiche 2022). Senza contare che la radicalizzazione spacca il Pd e rende non impossibile una separazione (in casa o no) dei riformisti dai seguaci della Schlein. In tutto questo la Meloni ha un vantaggio enorme: se le opposizioni sono unite ma dissonanti, ne può denunciare l’incoerenza e batterle; se il campo progressista si restringe, governa altri dieci anni; se invece la Schlein si riprende il sopravvento, il dualismo fra due figure femminili tanto diverse fra loro può solo avvantaggiare entrambe.
Ma anche Conte ha il suo vantaggio: se resta all’opposizione, lucra voti sulla radicalizzazione, tanto non ha l’onere di governare e può promettere ciò che vuole agli elettori; se va al governo, o si prende Palazzo Chigi oppure (tenendosi la possibilità di «staccare la spina» all’Esecutivo in ogni momento, come ha fatto con Draghi) costringe la Schlein a scegliere una terza persona, come nel 2018, affiancata da lui stesso e dalla segretaria del Pd, in un accordo di governo altrettanto ambiguo e instabile come quello dei gialloverdi.
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