Italia e Estero

Elezioni politiche: la dura legge della lista, giusta e trasparente

A poche ore dalla presentazione delle candidature tiene banco il dibattito sulla selezione della classe politica
Torre di Babele al centro di un labirinto
Torre di Babele al centro di un labirinto
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Cosa ha tenuto tutti con il fiato sospeso nell’ultima settimana? La scelta dei candidati. I più tesi ovviamente erano loro: gli aspiranti parlamentari. L’opinione pubblica invece in questa ultima parte d’estate ha assistito con un certo distacco allo scontro tra e all’interno dei partiti per la formazione proprio delle liste. Inflazione, bollette, maltempo a guastare le vacanze sono certo questioni più immediate, ma nel medio periodo anche la selezione della classe politica avrà il suo peso, anche se ai più potrebbe non sembrare.

Chi ne è sicuramente convinto è il leader di Italia Viva Matteo Renzi che ha detto che le liste del Pd sono state fatte con rancore; qualcuno gli ha risposto che a suo tempo da segretario dem anche lui fece scelte per escludere chi non era d’accordo con la sua linea politica. Vero, verissimo e assolutamente normale. Ed è questo il punto da cui partire per provare a fare un ragionamento auspicabilmente equilibrato sulla questione delle liste. Ogni partito politico ha il suo metodo e non è detto che una selezione più trasparente e apparentemente più democratica sia l’unica possibile o quella che gli elettori davvero siano abbastanza maturi da digerire.

I partiti sono guidati da élite politiche che come sosteneva il sociologo italo-tedesco Roberto Michels, tendono alla preservazione del potere: un gruppo di pochi che guida il partito e lo organizza in modo da poterne conservare il controllo. Ne consegue che in occasione delle scadenze elettorale queste élite metteranno in campo per la propria auto replicazione, la propria tutela, rendendo difficile l’accesso a nuovi concorrenti interni.

Partito democratico

Enrico Letta, segretario del Pd - Foto Ansa/Massimo Percossi © www.giornaledibrescia.it
Enrico Letta, segretario del Pd - Foto Ansa/Massimo Percossi © www.giornaledibrescia.it

Ripartiamo dal battage mediatico attorno alle candidature del Pd, che hanno attirato tanta attenzione anche perché sono state le prime ad essere annunciate ufficialmente in ordine di tempo. Piaccia o meno l’attuale segretario del Pd Enrico Letta, ha scelto di candidare alcuni uscenti, delle figure di nota esperienza (come l’economista Carlo Cottarelli), quattro under 35 (per un po’ di retorica giovanilista) e rappresentanti di quella che potremmo definire una sua pseudo-corrente (anche se Letta non ha una vera e propria corrente) e una pattuglia di segnalati dal territorio.

Certo non gli si poteva chiedere di candidare tutti i già renziani, non avrebbe avuto senso: quelli pur con tutti i trasformismi del caso non potevano essere i «suoi» candidati. Dalla teoria alla pratica caliamoci nel caso bresciano dei dem. Dalla caduta del governo Draghi è partita una macchina serrata, una sorta di stagione congressuale accelerata a tutti i livelli, che nel Bresciano ha permesso al segretario provinciale Zanardi di indicare i nomi a Roma. Certo non si partiva da zero.

Va detto innanzitutto che a Brescia il partito poggia su un accordo tra lettiani e sinistra: da qui nasce la candidatura di Girelli, un lettiano che sarà infatti capolista per la Camera, alle sua spalle la Cominelli (della sinistra) che è destinata ad approdare in Regione, al posto del capolista che a meno di un cataclisma sarà certo di approdare a Montecitorio.

L’uscente Alfredo Bazoli, senza un vero appoggio sul territorio ma considerato prezioso per le questioni giustizia (sono lui e Anna Rossomando a giocarsi un posto al Csm) è stato candidato secondo in lista al Senato, alle spalle del capogruppo a Palazzo Madama, Simona Malpezzi. Perché non capolista si chiederà qualcuno? Perché ci sono scelte politiche, perché la legge prevede un equilibrio di genere. E perché Letta ha valutato che nel quadro complessivo Bazoli, che fa riferimento alla corrente di Base riformista (Guerini-Lotti) andava posizionato in quella casella.

Centrodestra

Giorgia Meloni, leader di Fratelli d'Italia - Foto Ansa/Riccardo Dalle Luche © www.giornaledibrescia.it
Giorgia Meloni, leader di Fratelli d'Italia - Foto Ansa/Riccardo Dalle Luche © www.giornaledibrescia.it

Nel centrodestra il processo è differente, e rispecchia, l’impostazione leaderistica che caratterizza i tre partiti più importanti della coalizione. Matteo Salvini, che non a caso viene chiamato dai suoi il Capitano, guida un partito di stampo leninista: decide lui e basta. Il che viene accettato sia dai semplici elettori sia dai militanti leghisti e anche dalla classe politica del Carroccio.

Il Capitano alla fine «saprà mettere le cose a posto» anche per chi non viene candidato o ricandidato. Il culto del capo non comporta un percorso democratico o partecipato per la definizione delle liste. E alla fine chi può contestare le sue scelte? Nessuno se non qualche dissidente o fuoriuscito. Ma difficile immaginare che il successore di Salvini non replichi questo approccio.

Parlando di culto del capo, non si può non pensare a Silvio Berlusconi e a Forza Italia che sulla carta sarebbe una forza liberale, ma nella quale le liste passano al vaglio del cerchio ristretto che di volta in volta si è costruito e rinnovato attorno al Cavaliere. Da Gianni Letta a Bonaiuti, da Mariarosaria Rossi alla Ronzulli. Dal 1994 ad oggi la selezione della classe dirigente ha seguito logiche differenti, ma il Cav alla fine ha deciso in ultima battuta.

Fratelli d’Italia, infine, ha chiaramente un impianto leaderistico: Giorgia Meloni, il cognato Francesco Lollobrigida e un manipolo di altri stanno decidendo le liste, ma da partito strutturato si confrontano con le pressioni delle correnti interne. Cosa che negli altri due partiti del centrodestra non esiste. Ad ogni modo l’output è che i nomi dei candidati del centrodestra usciranno in blocco e senza le tante polemiche che hanno seguito quelle del Pd. Alla fine le liste si accettano così e lo fanno anche i loro elettori.

M5s

Giuseppe Conte, leader del M5s - Foto Ansa/Alessandro Di Meo © www.giornaledibrescia.it
Giuseppe Conte, leader del M5s - Foto Ansa/Alessandro Di Meo © www.giornaledibrescia.it

In questo panorama un’innovazione è stata introdotta dal Movimento 5 Stelle, che innanzitutto si è affidato alle votazioni on line per la selezione dei candidati. Un modello di democrazia digitale mutuato dall’esperienza già messa in campo dai Partiti pirata europei. Ma soprattutto un modo per permettere le autocandidature dei singoli iscritti e provare a spezzare la «ferrea legge dell’oligarchia» di cui parlava il succitato Michels.

Ora se a questo viene abbinata le regola dei due mandati come limite per i parlamentari è chiaro che un inevitabile processo di rinnovamento viene introdotto forzosamente. C’è chi ha espresso dubbi sui numeri delle consultazioni ed anche sulla trasparenza. Ma non è che la selezione degli altri partiti sia trasparente. Unico rischio come suggeriva un militante: «Un rinnovamento dal basso... speriamo non troppo».

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