Calabresi a Librixia: «Contro l’ansia, il tempo del bosco dentro noi»

Si attarda al firmacopie il tempo di non apparire scortese (la fila è lunghissima), ruba uno scatto all’auditorium gremito, poi si rivolge al pubblico come fosse a casa: «Vi siete accorti che ho scritto le dediche in verde per richiamare il bosco? Mi sono fermato apposta a comprare il pennarello in stazione». Sta in questa soddisfazione nel raccontare con gusto un dettaglio di apparente irrilevanza il senso dell’incontro che Mario Calabresi regala ai convenuti in San Barnaba per il primo appuntamento di rilievo di Librixia.

Il pennarello verde, che richiama il bosco - Foto New Reporter Comincini © www.giornaledibrescia.it

Lo scrittore e giornalista è a Brescia per presentare, sollecitato dal collega Carlo Muzzi, il nuovo libro «Il tempo del bosco», pubblicato da Mondadori solo una decina di giorni fa. «Sono la disperazione degli editori – ride –, che vorrebbero facessi un libro all’anno. È che per me i libri nascono per necessità: devo sentire il bisogno di raccontare qualcosa, sennò non mi viene nemmeno una riga».

Maratona

In questo caso la sollecitazione arriva quasi due anni fa, a margine di un convegno sul valore del Tempo. È una studentessa di medicina oppressa dall’ansia da prestazione e dalle aspettative altrui ad «attivare le antenne» di Calabresi, come rivela lui: «A quella ragazza ho detto che la vita non sono i cento metri, ma una maratona in cui ci stanno lo sprint e il momento del recupero, lo stop e la ripartenza. Le nostre esistenze non sono come l’algoritmo del computer, non esiste una ricetta perfetta che porti a un esito certo. Siamo spesso il risultate delle svolte che ci deviano dal percorso prefissato».

Ne sono esempio lo stesso Calabresi e il fratello, due laureati mancati, «con grande disperazione di mamma Gemma che ancora oggi mi chiede quando ho intenzione di finire». A sviare il cammino di Mario un plico di documenti su Kennedy appena desecretati, piovuti nelle mani ansiose di un 23enne a un passo dalla tesi: «Il mio docente voleva farci un libro e mi sono paralizzato». Paolo, invece, «è stato folgorato da bambino quando ha visto E.T».

La prende larga, Calabresi, pure larghissima, con quella voluttà nel racconto che è la sua cifra umana e professionale: «Per me non esiste nulla di noioso. Penso non ci sia al mondo persona senza storie da regalare». Per carpirle serve l’ascolto («Venerdì ho incontrato un tipo che conosco e sono rimasto incantato un’ora a farmi raccontare il criterio con cui riordina i prodotti sugli scaffali del market»); ma per rivelarle il silenzio: «È la mia regola quando intervisto qualcuno. La prima risposta è spesso studiata, standard. Allora mi fermo e sto zitto dieci secondi. È imbarazzante, ma è a quel punto che escono fuori le cose».

La ricetta

Pazienza, ascolto, silenzi, sono gli antidoti che Calabresi oppone a un tempo troppo rapido, «in cui siamo bombardati ogni secondo da messaggi, scadenze, richieste e gruppi WhatsApp della pizzata delle medie. Dobbiamo tornare a distinguere fra ciò che è urgente e ciò che è importante. Nel quotidiano sacrifichiamo ciò che ci sta a cuore a favore delle incombenze che ci impongono gli altri. Io allora la domenica mi scrivo ciò che di rilevante voglio fare nella settimana. Un consiglio: fatevelo anche voi il foglietto».

E se le ricerche per il libro hanno portato Calabresi dalla riserva inaccessibile di Sasso Fratino a una cella dell’Eremo di Camaldoli, l’esilio non è la soluzione agli umani tomenti. Al contrario «dobbiamo essere capaci di ritrovare il silenzio del bosco dentro di noi». O avere la fortuna di incontrare un Tonino – il secondo marito della madre, cui è dedicata la conclusione del libro –. «Ogni mattina inventava per noi una giraffa, un elefante o la neve, fuori dalla finestra. Un giorno di marzo è arrivata davvero e allora ho iniziato a credere alle favole. Mi fa ripensare con gratitudine ai colori tutti che lui, pittore, ha portato nella nostra vita».