Fascismo-cultura: cent’anni fa la storica diatriba fra Gentile e Croce

Esattamente cento anni fa, nel 1925, in un clima politico molto teso, gli intellettuali italiani furono chiamati a schierarsi pro o contro il fascismo. Il 21 aprile (Natale di Roma), Giovanni Gentile pubblicò «Il Manifesto degli intellettuali del Fascismo» sul Popolo d’Italia, per legittimare culturalmente il regime e dimostrare che il fascismo non era solo violenza, ma anche fede e cultura. Il manifesto nacque dopo un convegno a Bologna con circa 250 intellettuali, tra cui Marinetti, Ungaretti, Volpe. Pirandello era a Roma, ma scrisse: «Voglio chiedervi l’onore di essere considerato presente».

La mossa di Gentile colse di sorpresa la parte liberale e democratica dell’intellighenzia, irritando in particolare Benedetto Croce, il quale sin dal 1922 aveva considerato il fascismo «un moto di difesa dell’ordine sociale, patrocinato in prima linea dagli industriali ed agrari e, come tale, esso non solo è indifferente alla letteratura e alla cultura, ma intimamente ostile. Con perfetta logica e con piena conoscenza della situazione il Duce ha detto che per lui uno squadrista vale più di un letterato o di un filosofo».
Il fascismo dunque, per Croce e per molti liberali, avrebbe dovuto limitarsi a fare da «ponte di passaggio per la restaurazione di un più severo regime liberale», e non certo esprimere un progetto culturale né, tanto meno, etico-politico.
Quando Giovanni Amendola gli chiese di rispondere, Croce non esitò. Scrisse un contro-manifesto, «Una risposta di scrittori, professori e pubblicisti italiani», pubblicato simbolicamente il 1° maggio su «Il Mondo» e altri giornali. Il documento raccolse più di 250 firme autorevoli come quelle di Eugenio Montale, Luigi Einaudi, Gaetano Salvemini. Un risultato più che soddisfacente anche se Roberto Bracco constatò che c’erano «molte adesioni tra i professori, ma nel campo dell’arte zero. Gli artisti, i letterati... sono vili».
La pubblicazione del Manifesto antifascista di fatto fu l’ultima campagna stampa contro il nascente regime. L’iniziativa fu però snobbata dai i giornali socialisti e comunisti che la considerarono un regolamento di conti interno alla borghesia. Per Croce, quella fu una netta presa di distanza dal fascismo, dopo aver inizialmente sperato in una sua funzione di traghettamento verso un nuovo, energico, liberalismo.
Ma col tempo si rese conto di aver commesso un grave errore, poiché proprio il sostegno liberale contribuì a sostenere il traballante governo di Mussolini nel 1924. La vicenda dei due manifesti tuttavia non va vista solo come un episodio della politica culturale italiana, ma come parte di una più ampia frattura nel mondo intellettuale europeo, iniziata con la Prima guerra mondiale.
«Intellettualità servile»
Nel Manifesto, Croce sviluppa una critica alla strumentalizzazione della cultura da parte del fascismo. Al centro della sua polemica vi è la denuncia di un’intellettualità che, invece di difendere la libertà di pensiero, si mette al servizio del potere politico ed economico, diventando un mero instrumentum regni. Croce distingue nettamente il ruolo dell’intellettuale da quello del cittadino: se come cittadini si può e si deve partecipare alla vita politica, come intellettuali si ha il dovere di rimanere fedeli alla verità, alla scienza e all’arte.
Non meno centrale nel Manifesto è la difesa del Risorgimento, che il fascismo pretendeva di rappresentare dopo il presunto fallimento dello Stato liberale. Croce ribalta questa narrazione: il Risorgimento fu un processo difficile e incompleto, sì, ma autenticamente liberale e democratico, fondato sull’inclusione.
Si trattava in altre parole di difendere la graduale, ma continua integrazione degli italiani portata avanti tra alti e bassi dalla classe politica liberale. Vale a dire, all’atto pratico, il recupero del giolittismo di cui si comincia ad apprezzare la «saviezza ardita del suo governo».
Particolarmente duro, di converso, è l’attacco allo Stato etico teorizzato da Gentile, che pretende la completa sottomissione dell’individuo alla volontà dello Stato, esaltata come legge suprema. Croce rifiutò questa concezione, che considerava pericolosa e antistorica, e difese invece l’idea liberale di una società pluralista, fondata sulla competizione tra partiti come motore del progresso. Il Manifesto non nasconde il fastidio per l’uso improprio e ideologico del concetto di religione da parte di Gentile, che lo adatta a una «nuova fede» vuota e contraddittoria, utile solo a suscitare passioni cieche, odio e spirito di divisione. Questa retorica religiosa, nata nell’esperienza della guerra e travasata nella politica, era per lui una vera e propria degenerazione che rischiava di condurre alla guerra civile.
Al posto di questa «religione» confusa e strumentale, Croce rivendicava la sua vecchia fede. Come scriverà pochi mesi dopo «il mio liberalismo è cosa che porto nel sangue, come figlio morale degli uomini che fecero il Risorgimento italiano, figlio di Francesco De Sanctis e degli altri che ho salutato sempre miei maestri di vita. La storia mi metterà tra i vincitori o mi getterà tra i vinti. Ciò non mi riguarda. Io sento che ho quel posto da difendere, che pel bene dell’Italia quel posto dev’essere difeso da qualcuno, e che tra i qualcuno sono chiamato anch’io a quell’ufficio. Ecco tutto».
La difesa di quel liberalismo era diventata nel 1925 qualcosa di concreto in cui erano incluse le istituzioni parlamentari, la libertà economica e la struttura costituzionale dello Stato, che il fascismo tendeva a cancellare o manipolare. La sua adesione al Partito Liberale e la stesura del Manifesto segnarono così una svolta nella sua visione dell’impegno politico, vista non più come scelta individuale, ma come necessità morale di fronte a un regime che minaccia la civiltà stessa.
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