Tra pascoli e silenzi: il viaggio atemporale di Ferella in Valcamonica
Nelle valli bresciane la pastorizia non è un’esperienza del passato, ma uno dei fili rossi che da secoli tessono la storia di luoghi, persone e comunità. Più di ogni altra, la Val Camonica è terra di transumanza, attestata già nell’alto Medioevo, quando Brescia – insieme a Piacenza – era uno dei grandi centri di produzione laniera e il potente monastero di San Salvatore gestiva questi passaggi di uomini e animali tra i monti e il Po.
Un mestiere che non è scomparso, ma continua a vivere come una parte fondamentale della nostra eredità: uomini e donne che vivono per il loro gregge, da condurre, insieme ai cani, sempre attraverso nuovi pascoli, in un ritmo che non separa mai il lavoro dalla vita.
È proprio dentro questo paesaggio fatto di silenzi e tenacia, razze ovine locali e gerghi segreti che si inserisce lo sguardo di Davide Ferella, fotografo aquilano, da oltre dieci anni di casa a Brescia e da poco trasferitosi a Boario Terme. Dopo aver raccontato i pastori d’Abruzzo, Ferella segue ora in Val Camonica il mondo della pastorizia vagante, raccontando con il suo obiettivo una nuova storia antica, ma ancora in cammino.
«Ho sempre nutrito un grande interesse per questi mestieri tradizionali, mi affascina quello che sta per finire e, anche se mi auguro che ciò non accada, mi piace poterlo raccontare» spiega Ferella, che presenterà il prossimo anno un libro per Corsiero Editore proprio sul primo racconto fotografico di uomini e greggi, ambientato negli immensi spazi di Campo Imperatore.
«La pastorizia bresciana è molto diversa da quella abruzzese, che ormai è diventata semi stanziale. Purtroppo, in Abruzzo questa è una pratica che andrà a scomparire entro i prossimi cinquant’anni, perché non c’è ricambio generazionale. Invece a Brescia questo ricambio c’è».
Con il suo progetto, ancora in corso, Davide sta infatti seguendo Valentino, un giovane pastore di 27 anni che si sposta con le sue pecore tutto l’anno. «In estate si muove al Mortirolo, in Val Bighera, e con l’arrivo del freddo sta riscendendo tutta la Val Camonica per arrivare a Pian Camuno, dove si fermerà per svernare. Più avanti tornerà sugli alpeggi, attraverso il passo dell’Aprica. Lo sto seguendo da qualche tempo, oggi, per esempio, eravamo a Niardo, ieri invece a Ono San Pietro. Il progetto sarà a lungo termine, penso durerà almeno fino all’estate prossima».
In programma c’è l’idea di farne una mostra fotografica, che sarà presentata al Castello Oldofredi di Iseo. Le immagini in bianco e nero di Ferella colpiscono per la capacità di fermare i gesti, anche quelli minimi: il montare e rimontare le reti dei recinti, i cani in attenta osservazione, gli agnelli, le mani e i bastoni dei pastori.
Sul Sebino la stagione della sarda
La sua ricerca documentaria, dal forte valore etnografico, ha attraversato le valli, raggiungendo anche le sponde del Sebino. «A maggio di quest’anno ho conosciuto Andrea Soardi, un ragazzo di Monte Isola che insieme al padre, porta avanti da generazioni la pesca volante, in cui le reti vengono calate di notte e ritirare all’alba».
Racconta Ferella: «Ci siamo risentiti proprio in questi giorni, perché si è aperta la stagione della sarda. Tornerò in barca con lui e vorrei seguire tutto il percorso produttivo e di essicazione della sarda di Montisola.» È un altro lavoro che richiede dedizione, sacrificio, capacità di adattarsi ai ritmi della natura — aspetti che Ferella sente particolarmente affini alla sua poetica visiva. Una poetica che passa, ancora una volta, dal bianco e nero. «Ho sempre fotografato in bianco e nero – racconta – per un motivo sì estetico, ma soprattutto narrativo. Quello che voglio è atemporalizzare ciò che riprendo, per questo spesso mi concentro sui dettagli. Voglio che chi osserva le mie immagini si senta lì con me. Sara Munari, che è una fotografa molto brava, ha definito il mio lavoro un «reportage interpretativo» che più che raccontare, cerca di far sentire.»
Verso Veneto e Trentino
Ma il viaggio non è ancora finito. Le storie da scoprire, soprattutto quelle che resistono senza clamore, sono ancora tante.
Negli ultimi mesi Ferella ha rivolto lo sguardo anche verso altre regioni dell’arco alpino: «Ho preso contatti in Veneto e in Trentino, dove la presenza delle donne pastore è più diffusa. E poi, proprio leggendo il Giornale di Brescia, ho scoperto Monia Tiberti e la sua produzione in Val Saviore del formaggio Fatulì…». Tasselli che si aggiungono via via e che, insieme, compongono un mosaico di vite che meritano di essere raccontate e custodite.
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