Strage piazza Loggia, la superteste mette Toffaloni al centro delle accuse

Ha avuto bisogno di cinquant’anni. Di diventare donna, una donna matura. Di maturare il rischio che ha corso. Di metterselo alle spalle insieme alla ragazzina che è stata, alle pressioni che ha subito, agli incubi che le si sono ripresentati per decenni tutte le volte che, e non solo quelle, ha dovuto affrontare la strage di piazza della Loggia e i suoi mostri. Ieri, cinquant’anni dopo, Ombretta Giacomazzi ha chiesto scusa per il tempo che le è servito e che si è presa, e ribadito davanti ai giudici del tribunale dei minorenni, che sta processando Marco Toffaloni per la fase esecutiva dell’attentato che il 28 maggio 1974 provocò la morte di otto persone e il ferimento di altre 102, ciò che sa per essere stata in quei mesi la «fidanzatina» di Silvio Ferrari. Ha detto di aver frequentato il giro dei neofascisti amici del 21enne saltato per aria in piazza del Mercato insieme alla sua Vespa nove giorni prima della strage, di essere stata più volte con lui a Verona, alla caserma Parona e al palazzo Carli sede della Ftase, nei sancta sanctorum dei servizi segreti deviati.
Rispondendo alle domande del sostituto procuratore Caty Bressanelli, la superteste della procura ha parlato anche del monolocale di via Aleardo Aleardi in uso in quegli anni a Silvio Ferrari, nel quale il giovane neo fascista sviluppava, tra le altre, fotografie che ritraevano i partecipanti degli incontri veronesi e dove incontrava uomini dell’Arma, a partire dal capitano Francesco Delfino. Ha raccontato di un plico di foto custodite a garanzia della salvezza di Ferrari e poi sparite, una sorta di assicurazione sulla vita che non ha funzionato.
Tra Brescia e Verona
Giacomazzi ha riconosciuto Marco Toffaloni nelle foto dell’epoca, ha detto di averlo visto al tavolo insieme proprio a Delfino nelle caserme, ma anche di averlo incontrato più volte a Brescia. Ha spiegato in particolare di aver assistito ad una discussione animata tra il veronese e Silvio Ferrari ad oggetto il tentativo del suo fidanzato di tirarsi indietro, di non portare a compimento un impegno che aveva preso, probabilmente l’attentato al Blue Note che gli costò la vita.
La testimone ha parlato anche di Ermanno Buzzi, assiduo frequentatore della pizzeria di famiglia in viale Venezia, e ritenuto basista della bomba dalla sentenza passata in giudicato con le condanne all’ergastolo di chi volle e pianificò l’attentato. Tra questi ultimi ha detto di aver conosciuto anche Maurizio Tramonte, lo ha riconosciuto in foto e lo ha ricordato «senza baffi» nei giorni che precedettero lo scoppio in piazza della Loggia. Giacomazzi ha riferito anche quello che sa del «marcantonio» Roberto Zorzi, l’altro presunto materiale della strage, a processo davanti ai giudici del tribunale ordinario. Ha detto di averlo visto più volte a Brescia, anche proprio nel ristorante dei suoi genitori, pochi giorni dopo la morte di Silvio e pochi prima della bomba di piazza Loggia. Di avergli sentito pronunciare propositi di vendetta e l’intenzione di provvedere personalmente a metterla in atto. Ha riferito di aver contattato il braccio destro del capitano Delfino per annunciargli i loro propositi, temendo per la loro incolumità, non immaginando quello che sarebbe poi accaduto.
Le scuse
Ombretta Giacomazzi ha parlato anche della genesi e dello sviluppo della sua testimonianza nella fase delle indagini preliminari, negli anni Duemila. Ha detto del colonnello Massimo Giraudo, del tempo che le è servito per mettere a tacere la paura che nutriva nei confronti degli inquirenti dopo l’esperienza del carcere vissuta all’epoca della strage, anche in seguito alle pressioni subite proprio da chi all’epoca investigava. Ma ha spiegato anche che, una volta vinta la diffidenza, i suoi incontri con gli investigatori si sono svolti nella più assoluta correttezza. Il capitano Giraudo non era mai solo, non le ha rivolto domande suggestive, ha avuto – ha raccontato Giacomazzi in aula – tutta la pazienza del caso.
La testimone, che nel corso del primo grado del processo ai vertici di Ordine nuovo e al capitano Delfino lasciò ai verbali una testimonianza contraddittoria, ha chiesto scusa a tutti, alle vittime, ai loro parenti. «So che avrei dovuto parlare prima, ma ho vissuto anni difficilissimi, ho convissuto con la paura di rimetterci la pelle, anche diversi decenni dopo la strage. All’epoca – ha detto – mi era stato intimato il silenzio, tanto dagli inquirenti, quanto dai ragazzi del giro, pure l’avvocato mi consigliò di tacere. Avevo paura. L’ho avuta a lungo».
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