Padre Francesco Ielpo: «La pace in Medio Oriente? Educhiamo i cuori»

Un incontro che mette al centro i temi del dialogo e pace. Lunedì mattina padre Francesco Ielpo, Custode di Terra Santa e Guardiano del Monte Sion, si è collegato con gli studenti dell’Istituto Luzzago, di cui è stato rettore dal 2000 al 2010, per parlare della situazione in Medio Oriente.
Padre Ielpo che cos’è la Custodia di Terra Santa e quale ruolo svolge?
La Custodia di Terra Santa è una provincia religiosa dei frati minori che risale a Francesco d’Assisi. Facciamo partire la nostra presenza dal 1217, quando il Santo inviò i primi frati in questa terra; lui stesso vi giunse nel 1219 incontrando il sultano d’Egitto. Nel 1342 Papa Clemente VI affida ufficialmente ai francescani la custodia dei luoghi santi, come il Santo Sepolcro e la Basilica della Natività. Oggi siamo 325 frati provenienti da oltre 40 Paesi, presenti tra Israele, Palestina, Libano, Siria, Giordania, Cipro, Egitto. Custodire i luoghi significa servire i pellegrini ma anche le «pietre vive»: le comunità cristiane locali, attraverso scuole, parrocchie, opere sociali. Il custode è superiore dei frati, ma anche interlocutore delle altre Chiese, dei governi e delle nunziature. In Medio Oriente i cristiani sono meno del 2%: il nostro compito è anche diplomatico e di presenza quotidiana.
Quanto è complesso mantenere rapporti istituzionali con Israele e con l’Autorità Palestinese?
In ogni conflitto i rapporti si complicano. Ciò che si dice – o non si dice – viene spesso letto a favore o contro una parte. La Chiesa però ha sempre mantenuto un dialogo costante con entrambe le realtà, pur tra difficoltà e sofferenze enormi. La nostra posizione è chiara: un destino buono deve essere un destino per tutti. In questa fase servono pazienza, ascolto e capacità di non lasciarsi trascinare dall’odio.
Papa Leone XIV ha parlato di «disarmare le parole». Che cosa significa in un contesto come il Medio Oriente?
È un tema profondamente francescano: Francesco non usa mai la parola «nemico» nei suoi scritti. Le parole non sono neutre: manifestano come guardiamo il mondo. Nelle guerre tutti sono tentati dall’odio, dal risentimento, dalla vendetta. “Disarmare le parole” significa educare il cuore a una visione diversa. Se continuiamo a usare un linguaggio violento, la violenza entra nel cuore. È il primo passo verso una possibile riconciliazione.
In questi giorni è in vigore una tregua, fragile ma significativa. Da Gerusalemme, che sensazioni ha?
Il 10 ottobre, con l’annuncio della tregua, è cambiato qualcosa negli occhi delle persone. Non parliamo di pace: è una semplice sospensione del fuoco, a singhiozzo. Ma ha riacceso una briciola di speranza. Nulla tornerà come prima: le ferite richiederanno generazioni per rimarginarsi. Però la tregua ha aperto uno spazio per immaginare un futuro e, soprattutto, per smettere di contare vittime ogni giorno.
La pace è un punto d’arrivo? Come si costruisce?
Tutti desiderano la pace, ma bisogna intendersi su cosa sia: non solo assenza di guerra, ma giustizia, verità, relazioni autentiche. La pace è dono e costruzione insieme. Noi lavoriamo ogni giorno con i giovani: educare i cuori è il primo passo. Le soluzioni politiche tentate in passato sono naufragate; io non ho ricette. Ma so che senza guarigione interiore nessun progetto politico reggerà.
Che ruolo ha la scuola in questo contesto?
Le scuole della Custodia sono scuole cristiane ma aperte a tutti, frequentate insieme da studenti cristiani e musulmani che vivono e crescono insieme. La scuola diventa così un vero laboratorio in cui identità diverse si incontrano e si rafforzano. È in questo spazio quotidiano di vicinanza che può maturare una nuova idea di società, fondata sulla stima reciproca. Perché una vera religiosità aiuta sempre a riconoscere l’altro non come un nemico ma come un fratello.
Vi siete sentiti in pericolo?
L’area più pericolosa è stata la Striscia di Gaza. A Gerusalemme le sirene permettono di ripararsi; più esposti sono stati i frati a Jaffa e a nord, con i missili dal Libano. Alcuni fratelli provenienti dall’ex Jugoslavia hanno rivissuto traumi d’infanzia: per loro abbiamo previsto trasferimenti temporanei. In Siria, nel 2017, un missile è cadde a due chilometri dal convento: quella notte tremò tutto.
Restando sulla Siria, i cristiani hanno affrontato l’ISIS e gruppi jihadisti. Che cosa avete vissuto lì?
Per 14 anni i frati hanno rischiato la vita ogni giorno. Conventi bombardati, attentati, comunità annientate. Alcuni confratelli sono stati imprigionati, torturati. Eppure sono rimasti accanto agli anziani cristiani che non potevano lasciare i villaggi. Un episodio che non dimentico: dopo un attentato in una chiesa a Damasco ho visitato i feriti. Più di uno mi ha detto: «Siamo mezzi morti, ma siamo disposti a morire una seconda volta per Cristo».
Che messaggio si sente di dare ai ragazzi
Informatevi. Non accontentatevi dei social, di video di pochi secondi, di notizie parziali. Per amare bisogna conoscere, e conoscere richiede tempo e fatica. Solo così costruirete un mondo più giusto.
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