La missione russa anti-Covid cercò di avvicinarsi a Ghedi

È vero: il contingente militare inviato da Putin tra aprile e maggio 2020 nel pieno della prima ondata Covid, a Ghedi - in veste ufficiale - non ci è mai stato. Il paese della Bassa era sì sull’intinerario iniziale, ma non su quello definitivo che scandiva l’agenda delle sanificazioni da effettuare nelle Rsa in tandem con il nostro esercito. Nessuno può negare che i russi non abbiano messo piede attorno alla base di Ghedi durante l’orario di lavoro: non gli alpini che in quei giorni hanno seguito le attività passo dopo passo da volontari, non la Protezione civile, non la Regione, non i sindaci.
Ci sono però due punti fermi che, altrettanto, nessuno può smentire. Il primo: l’ordine di mantenere la cosiddetta «distanza di sicurezza» di 50 chilometri dai punti sensibili - come appunto il campo dell’aeronautica militare - non è stato rispettato, forse perché le squadre erano scortate dai soldati del nostro esercito. Il secondo: l’orario di lavoro, stando a quanto riportato dall’autista che accompagnava i militari inviati dal Cremlino, spesso non comprendeva tutta la giornata, ma terminava subito dopo aver pranzato.
La scorta dell'esercito italiano
La questione della distanza di sicurezza (e di assegnare al contingente arrivato dalla Russia una sorta di scorta, composta da militari italiani) risale alla prima riunione operativa. In quell’occasione - come rivelato giorni fa da più fonti della Difesa - il generale Luciano Portolano, a capo del Comando operativo di vertice interforze (Covi), si scontrò con Sergej Kikot - a capo della missione russa e vicecomandante del reparto di Difesa chimica, radiologica, biologica dell’esercito russo - e stabilì che gli uomini inviati dal Cremlino si sarebbero dovuti mantenere «ad almeno 50 chilometri dai siti sensibili», non tanto durante l’attività di sanificazione quanto come «base» in cui sostare e pernottare. Questo, nel Bresciano, certamente non è avvenuto.
Lo conferma il fatto che negli ultimi sei giorni trascorsi nel Bresciano i russi abbiano dormito a Rezzato. Se infatti inizialmente i militari stavano in un hotel di Bergamo - dove ogni giorno i volontari degli alpini li andavano a prendere con due pullman e li accompagnavano nei luoghi di destinazione - a maggio due squadre «hanno pernottato in un hotel di Rezzato», insieme ad alcuni uomini dell’esercito italiano, «perché raggiungere il Garda da Bergamo avrebbe fatto perdere troppo tempo» ha spiegato il presidente dell’Ana di Brescia, Gian Battista Turrini, che ha fornito loro supporto logistico. Non è quindi certo che (fuori dall’orario delle attività) non poterono avvicinarsi ai paesi contigui a Ghedi, base del Sesto Stormo e aeroporto in cui - secondo il dossier Nato - sarebbero presenti alcune decine di testate nucleari. A separare Rezzato da Ghedi ci sono 12,09 chilometri in tutto, un tragitto che - ultimate le sanificazioni nelle Rsa di riferimento - i militari russi avrebbero potuto percorrere in brevissimo tempo, sia nelle ore pomeridiane sia di notte.I dubbi e i sospetti

Nessuno può sostenere con certezza che sia andata in scena un’operazione di spionaggio: del resto, è il pensiero di chi la geopolitica la segue con attenzione, non era certo quello dell’emergenza Covid l’unico pretesto per inviare spie in Italia e, del resto, anche avvicinandosi al sito dell’aeronautica, come avrebbero fatto ad entrare? E per carpire cosa, dall’esterno, che droni e satelliti non avrebbero già eventualmente potuto testimoniare? Vero. Nessuno, però, in questo momento può neppure negare che, se avesse voluto, in quei quindici giorni trascorsi a Brescia l’esercito russo abbia avuto occasione e opportunità per farlo.
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