Quando le cascine erano villaggi con 700 abitanti

All’inizio del secolo scorso la vita era dura. Nelle cascine, ad esempio, d’estate si sudava come animali: perché non c’erano i condizionatori, ma anche perché tutto si faceva a mano. I trattori erano un sogno; e solo i più ricchi potevano permettersi buoi e cavalli. In compenso c’era grande condivisione: magari obtorto collo, ma molte esperienze si facevano insieme.
Oggi la campagna è costellata da cascine mediopiccole: chi ci abita (contadini, ma anche misantropi in cerca di tranquillità) adora la privacy. Un tempo, invece, c’erano mega cascine che, oltre al padrone e alla sua famiglia, ospitavano fittavoli, mezzadri e salariati: centinaia di persone alla volta riunite tutte nello stesso posto. Alla Scovola, ad esempio, sul confine tra Leno e Ghedi, negli anni ’30 abitavano 500 persone, salite a 700 negli anni ’50 e ’60. Un paese, insomma, con tanto di scuola, chiesa e asilo.
Non tutte le fattorie erano extra large. Ma 50/60 anime le trovavi dappertutto: alla cascina Prada dei Migliorati, ad esempio, vicino a Gottolengo, oppure alla Mianina dei Guarneri, tra Ghedi e Bagnolo. Fittavoli e salariati vivevano in spazi ridotti, costretti a una promiscuità oggi inaccettabile. Il fulcro di queste cascine era la casa padronale, bella e con molte stanze. Sul perimetro che delimitava l’aia erano relegati gli alloggi dei salariati: un unico fabbricato ospitava 10/20 «mini appartamenti». Abitazioni naïf, tipo casa dei puffi: una stanza al pianterreno a far da cucina e una al primo piano per dormire. A collegarle una semplice scala di legno. Come servizi i campi o la concimaia; il bagno si faceva una volta la settimana nella söölo (la mastella di legno) riempita con l’acqua scaldata in un paiolo sul fuoco.
In questi mini appartamenti si viveva tutti insieme, in spazi ridotti. Anche perché le famiglie erano molto numerose: agli 8/10 figli si aggiungevano la «zìo pöta» (la zia nubile) o «’l zìo mül» (idem). E poi i nonni. Che, essendo rispettati e non considerati un peso come purtroppo capita oggi, spesso ricoprivano il ruolo di «risidùr». Capifamiglia, insomma: la loro parola era legge. Le contestazioni erano bandite in ogni caso.
Molti momenti erano vissuti coralmente. Tra questi la trasformazione del maiale in salami e cotechini: evento sempre atteso con speranza e trepidazione, perché assicurava la scorta di carne per l’inverno. Certo, a godere di più era il proprietario dell’animale, che a sera si trovava il baldacchino in casa. Ma la festa era collettiva: per dare una mano, o solo per curiosità, tutti partecipavano.
A fine giornata, quando i salami gocciolavano grasso dalle pertiche a cui erano appesi, molti si portavano a casa una fettina di «mòmbol». Qualcuno dice che, una fettina ad un vicino, una all’altro, al proprietario dell’oramai ex porco rimaneva ben poco. Vero. Però è anche vero che, così facendo, in più occasioni molte famiglie da ottobre a gennaio avevano un po’ di lombo fresco da mangiare. Siccome nessuno aveva il frigo, questo quotidiano scambio di carne aveva i suoi lati positivi.
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