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Eterno Baresi: «Le parole possono tradire, l'esempio dato no»

Il bresciano ospite al Festivaletteratura di Mantova, intervistato da Buffa sull’autobiografia «Libero di sognare»
Franco Baresi, icona del Milan
Franco Baresi, icona del Milan
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Quella di Franco Baresi, sorta di... Ragazzo della via Gluck che a Travagliato a fine Anni 60 rincorreva un pallone - «spesso a piedi scalzi per non rovinare le uniche belle scarpe che avevo» - nell’aia d’un casale di campagna («un quadrato con 4 abitazioni e tre uscite: verso i campi, l’orto e il paese») ed è diventato un campione, è storia di sport, ma soprattutto di vita e umanità. La racconta nell’autobiografia «Libero di sognare» (Feltrinelli, 160 pagine, 15 euro) in uscita il 30 settembre, ma nei giorni scorsi al Festivaletteratura di Mantova gliel’ha... strappata dalla proverbiale indole silente e riservata Federico Buffa col suo garbo giornalistico-affabulatorio nell’incontro «Numero 6» (la maglia indossata da Baresi fino all’addio, a 37 anni, nell’ottobre 1997).

Ed è un narrare lieve e pacato quello del «solo capitano» cantato nei cori dei tifosi. Ma anche consapevole: «L’affetto che la gente ha continuato a manifestarmi anche dopo il ritiro - spiega - mi ha spinto a 61 anni a raccontare cosa c’è dietro il mio percorso sportivo e umano. Per trasmettere e un po’ per ispirare». Del resto, come non ascoltare uno di cui il cine-regista Werner Herzog disse: «Nessun altro calciatore ha capito così bene e a fondo il concetto di spazio. Vorrei nei miei film capire il cuore dell’Uomo e degli spazi come l’Amazzonia come lui ha capito il gioco del calcio».

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Baresi, che a differenza di Ronaldo che a Madeira ha acquistato e demolito la povera casa natìa, alla sua crescita, anche morale, maturata nel casale che il nonno divise tra il padre di Franco e gli altri tre fratelli Baresi, di quell’autorevole elogio dice: «Mi ha sorpreso essere citato da Herzog, ma ha centrato il mio segreto: gli spazi e l’orizzonte di casa mi hanno abituato a muovermi nel calcio; intuivo i movimenti dell’avversario e partivo prima». C’è ancora, nel suo raccontare, l’humus che ne alimentò fisico e psiche: «Sono cresciuto in libertà, imparando serenamente le regole del buon comportamento. Oggi i bambini a 10 anni sono sotto pressione; noi giocavamo col pallone marrone di cuoio stringato e siccome si consumava, lo lucidavamo con la cotenna di maiale per preservarlo. Poi ho cominciato a giocare all’oratorio, un ambiente felice». Agli allenamenti era sua madre Regina ad accompagnarlo in auto: apposta aveva preso, per prima nel casale, la patente». Né si trascura Maura, futura moglie: «È stata ed è fondamentale nella mia vita e carriera».

Chiaro anche il ricordo del Baresi-ragazzino del provino per il Milan: dopo un primo andato così così, il parroco architettò di far venire a giocare a Travagliato la giovanile del Milan contro la squadra dell’oratorio, e Franco si fece notare appieno e fu ingaggiato. Nel libro e nel dialogo con Buffa, c’è spazio pure per il calcio giocato, compresa la finale «in lacrime» persa ai Mondiali negli Usa col Brasile: «Piansi non solo di dispiacere, ma perché mi sentivo libero: avevo dato tutto. Dentro c’erano le emozioni di una vita e di una carriera». Ma Baresi ammonisce: «Nello sport e nella vita è fondamentale ciò che dai: le parole possono tradire, l’esempio no. Devi credere nei sacrifici e nel lavoro. Come diceva Sacchi: fai l’allenamento come se fosse la partita. E ricorda che soli non si vince, insieme sì».

 

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