Lucescu: «Brescia nel cuore, ma che rammarico quello spareggio»

Le candeline sulla torta sono tante, ma il fiato per spegnerle tutte c’ è ancora. Eccome. Quello che usa sovente per richiamare questo e quello, per impartire indicazioni. Per spronare i suoi ragazzi. Perché Mircea Lucescu, 80 anni oggi, è ancora saldo su quella panchina. Il tecnico di Bucarest, il più anziano in attività (è l’allenatore della Nazionale della Romania) tra i pro europei, è ancora presente nella memoria storica dei tifosi delle rondinelle più attempati che ricordano ancora quel lustro dei primi anni ‘90 quando il «Mago», fortemente voluto dal presidente Gino Corioni, conquistò due promozioni in serie A nel giro di tre stagioni, intervallate da una retrocessione («Mi brucia ancora») dalla massima serie, un paio di esoneri (di cui il primo con ritorno) e la conquista della Coppa Anglo-Italiana nel marzo del ‘94.
Un periodo in Italia che ebbe (e che ha ancora, visti i frequenti passaggi nella nostra città per ritrovare gli amici di un tempo) Brescia come punto di riferimento prima di una lunga e vincente carriera tra Romania, Ucraina, Russia e Turchia. Oltre quattro decenni – dopo i due da attaccante – vissuti a bordo campo. Per un allenatore che ha fatto scuola, un innovatore e un pioniere del mondo del pallone moderno.
Lucescu, come ci si sente a festeggiare il traguardo degli ottant’anni?
«Non li sento per niente – sorride –. Sono anch’io sorpreso di essere arrivato a quest’età, se mi guardo indietro la mia infanzia sembra co vicina. Forse perché sono stato sempre impegnato in qualcosa ed entusiasmo e motivazioni non mi sono mai mancate. E poi sono sempre stato circondato da persone eccezionali. Questo non mi ha mai fatto sentire il tempo che passava».
Eppure il tempo è passato: sente le pressioni di quella panchina o ci sta ancora bene li sopra?
«No no, ci vivo ancora benissimo. Anzi, con l’esperienza ho imparato a gestire sempre di più le pressioni. E sono convinto che in tutto questo c’è anche un po’ di fortuna. Quello che succede nella vita non dipende esclusivamente da noi».
Dei suoi ottanta, sessantacinque li ha passati tra campo e panchina: il calcio per lei è sempre stato un lavoro o un motivo di vita?
«Inizialmente, come credo per tutti, è stato un gioco, un piacere. Poi è uscita l’ambizione, il confronto con gli altri e quella voglia di emergere. Così, dopo l’Università, mi sono reso conto che la mia vita doveva sempre essere impegnata nel calcio. E così è stato. Di certo, ciò che mi ha consentito di continuare su quella strada è stato il successo. Perché una volta che l’hai ottenuto, non puoi più vivere senza e quello che fai non può più scendere di livello. E non conta dove sei, non conta la grande città: conta vincere, anche in un villaggio. È ciò che ti fa venire la voglia di andare avanti».

Ha dato qualche consiglio a suo figlio Razvan (attuale tecnico del Paok Salonicco) che sta seguendo le sue orme?
«Fin da bambino lo portavo con me nei ritiri, agli allenamenti, alle partite. È cresciuto in questo mondo e ha imparato giorno dopo giorno, non ho avuto bisogno di dirgli altro. L’unica cosa che gli ho detto è che, sia da giocatore che da allenatore, avrebbe subìto il confronto con me da parte di chi non ha pazienza, senza poter avere una crescita professionale normale. E allora ha fatto prima il portiere e poi ha voluto fare comunque l’allenatore. E devo dire che è molto, molto bravo».
Non ha mai pensato di mollare il calcio, nemmeno quando è stato colpito da un infarto una quindicina di anni fa?
«No, mai. Anzi, il calcio mi ha dato la forza di riprendermi. Ci ho provato una sola volta a lasciare, due anni fa, ma mi sono reso conto che non potevo restare senza tutta quella adrenalina».
Qual è stato il giocatore più forte che lei ha allenato?
«Non posso fare un solo nome, non sarebbe corretto. Ce ne sono stati davvero tanti. Anzi, sa che le dico? Che per il mio compleanno, e l’ho fatto davvero raramente, faccio una festa in cui ho invitato tutti i giocatori rumeni delle varie generazioni con cui ho giocato, anche se ora siamo rimasti in pochi, e che ho allenato. Compresi i quattro che sono venuti con me a Brescia, cioè Hagi, Sabau, Raducioiu e Lupu».

Le piace questo «calcio moderno» in cui molti ex giocatori si ritrovano subito su panchine anche blasonate?
«Questo è un mestiere difficile e la prova è che tanti campioni che ci hanno provato non sono andati avanti. Chi invece ha avuto allenatori come Guardiola o come me che teorizzavano e spiegavano tutto, non solo giocavano, ma imparavano. E ora fanno questo mestiere. Questo non è più il calcio di una volta. Oggi c’è un calcio accademico, in cui si studia. E la prima volta, questo studio, è nato a Brescia con me e con Adriano Bacconi, dove le partite venivano analizzate, digitalizzate, aprendo di fatto la strada alla tecnologia che ora tutte le federazioni adottano. Anche se questo ha ucciso la fantasia».

Ecco, Brescia. Ricorda ancora con affetto quegli anni?
«Assolutamente, Brescia è sempre nel mio cuore! Ricordo quegli anni con affetto, ma anche con rammarico. Che gioia per quella prima promozione in A! Poi, nella massima serie, ogni squadra era legata ad un’altra nazione: c’era il Milan olandese, l’Inter tedesca, il Foggia russo, il Cagliari uruguagio, la Roma brasiliana, il Napoli argentino. E c’era il Brescia rumeno. Però mi è rimasto dentro quel rammarico del 1992/93: facemmo dieci partite in inferiorità numerica, oltre ad avere altre recriminazioni incredibili, e questo ci portò ad uno spareggio salvezza che non meritavamo di dover giocare, con due squalificati (Bonometti e Negro, ndr) “grazie” all’arbitro Pairetto. Eppure avevamo sconfitto squadroni come la Sampdoria di Mancini o la Lazio di Gascoigne e Signori che si giocavano l’Europa. Fu un vero peccato perché con quella squadra, in caso di salvezza, avremmo fatto un altro campionato di A eccezionale e poi chissà…».
Ha seguito cosa è successo al Brescia attuale?
«Certo. E mi spiace che Pasini non l’abbia preso prima, salvando categoria e 114 anni di storia. Ma capisco che trattare e trovare un accordo con Cellino non fosse semplice».
Ora però c’è tutto quello che Gino Corioni sognava…
«Vero. Sperava sempre che qualcuno lo aiutasse, anche per lo stadio che conta tantissimo. Ma faccio un grande in bocca al lupo al nuovo Brescia, che torni subito almeno in B».
Ci risentiamo tra dieci anni per i suoi novanta?
«Vi aspetto. E sarò ancora sul campo».
Riproduzione riservata © Giornale di Brescia
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