Calcio

Alla Nazionale fa paura la parola Nord nel nome degli avversari

Dalla battuta a un panorama (sportivo e non solo) abbastanza desolante
Trajkovski dopo la rete
Trajkovski dopo la rete
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Cosa scriveranno adesso tutti coloro che avevano visto nel successo degli azzurri all’Europeo, il segno dell’uscita dell’Italia dalla pandemia, il riscatto di un Paese dopo la batosta del Covid? Che siamo di nuovo caduti in fondo al baratro, che questo è il campanello d’allarme della quinta ondata, che insieme al calcio è l’intera nazione da rifondare? La verità è che è sempre molto pericoloso affidare i propri giudizi al rimbalzo di un pallone, alla parata di un portiere, a un tiro in porta. Nella vita, nello sport in particolare, molto continua ancora ad essere legato al caso, all’improvvisazione.

Nonostante il massiccio utilizzo di algoritmi, di sistemi di previsione, l’importanza sempre crescente dell’intelligenza artificiale, scopri che l’Italia del calcio non digerisce gli avversari che portano l’indicazione Nord nella loro definizione di bandiera: Irlanda del Nord (eliminazione dai Mondiali di calcio del 1958), Corea del Nord, troppo celebre per doverla ricordare, e ora Macedonia del Nord. E meno male che non era la Macedonia intera… Il gol di Trajkowski, peraltro, sembra la fotocopia di quello di Pak Doo-Ik, stesso tiro in diagonale, stesso angolo della porta, alla destra del portiere, ieri Albertosi, oggi Donnarumma, allungati sul prato, battuti a fil di palo.

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Qualcuno ha scritto che va messo sotto processo l’intero sistema, il calcio italiano nel suo complesso, con i suoi egoismi, i suoi ritardi, la mancanza di coraggio e di condivisione. Sembra la radiografia del Paese, al di là dei confini del campo di gioco. Un Paese che persino sulla guerra in corso in Ucraina si divide in schiere di tifosi, in quell’eterno Processo del lunedì che sono ormai i talk show televisivi. Ma almeno il programma di Biscardi andava in onda una sola volta alla settimana, oggi il dibattito è permanente, a tutte le ore del giorno e della sera.

Ma per tornare a Itala-Macedonia, forse c’è da osservare anche che nel momento dello sforzo decisivo, la squadra azzurra si è trovata a giocare con la coppia d’attacco del Sassuolo, un club che senza togliere alcunché ai suoi bravi attaccanti, viaggia al nono posto della classifica, un punto sopra al Verona. Delle prime quattro del campionato (delle quali nessuna in Champions League ha superato gli ottavi), Mancini ha schierato all’inizio del match solo quattro giocatori (Florenzi, Bastoni, Barella e Insigne). D’altra parte nelle formazioni inziali di Napoli-Milan, venti giorni fa, su 22 giocatori c’erano in campo solo 5 italiani. Erano sei, in Inter-Juventus, lo scorso ottobre, due dei quali, Bonucci e Chiellini, hanno più di 70 anni messi insieme.

E chissà perché Jacobs corre e le squadre italiane molto meno. Mancano di ritmo e intensità dice Fabio Capello. Come se la corsa non ci appartenesse per dna e per cultura. Poi, certo, ci sono le strutture, i vivai, le tattiche, tutti argomenti di cui sarà giusto e si potrà parlare. Intanto però c’è da chiedersi perché uno sport che in Italia è considerato «la terza industria nazionale» (Matteo Renzi, cit) produca risultati così modesti, salvo un Europeo vinto ai rigori. O forse è il Paese che non si sa misurare, per quello che è, per quello che vale. Un giorno in alto, un giorno in basso. Senza mezze misure.

Riproduzione riservata © Giornale di Brescia

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