Anche a Brescia si fa scuola «a casa» tra natura e metodo Montessori

Istruire i propri figli «a casa» è possibile e lecito. Non solo: l’istruzione parentale, su cui la controversa vicenda della «casa nel bosco» ha recentemente acceso i riflettori, è un fenomeno presente con diverse esperienze anche in provincia di Brescia. Seppur minimale rispetto alla totalità della popolazione studentesca, ha registrato un’impennata dopo la pandemia: nell’anno scolastico 2020/21 gli studenti bresciani che frequentavano le scuole parentali erano 157, nel gennaio 2022 336. Il doppio. Entrando un poco nel dettaglio, 229 alunni frequentavano la scuola primaria, 99 le medie e, per la prima volta, otto le superiori (dove l’istruzione parentale è ammessa solo nel biennio); di questi ultimi sette erano ragazzi con disabilità.
Purtroppo quelli di tre anni fa sono gli ultimi dati disponibili, assicurano all’Ufficio scolastico territoriale. «Il fatto è – spiegano – che né le famiglie né i dirigenti delle scuole di riferimento sono tenuti a passare da noi: le prime si attivano in modo autonomo per esercitare quello che è un loro diritto; e i presidi iscrivono gli studenti in istruzione parentale all’Anagrafe nazionale del Miur, che poi noi consultiamo. Ma al momento questi dati non sono pronti». Dall’Ust però arriva «un’ipotesi: dopo l’aumento successivo alla pandemia, il fenomeno dovrebbe essere in calo».
L’offerta
In ogni caso, l’offerta di scuole parentali nel Bresciano (dove peraltro l’estate scorsa la maggiore dei tre figli allontanati dai genitori in Abruzzo ha regolarmente sostenuto l’esame di idoneità alla terza elementare nella sede della paritaria Novalis Open School) risulta distribuita sul territorio e in parte diversificata per origini e approccio didattico. Si va dalla città, con la scuola dell’infanzia «La Libellula nel Bosco» a San Polo, dove si pratica un metodo educativo che mette in relazione diretta bambini e natura; alle valli, con la montessoriana LiberaMente di Villa Carcina (dall’asilo alla secondaria di primo grado), o quella che, nell’ambito del Centro educativo «Il Mio Porto Sicuro» a Gavardo, propone a bambini tra i sei e i nove anni «un percorso basato sull’esperienza diretta».
Come funziona
Il funzionamento di queste realtà nel contesto del sistema scolastico italiano è regolato dalla legge. In particolare, il decreto legislativo numero 297 del 1994 stabilisce che «i genitori che intendano provvedere privatamente o direttamente all’istruzione del figlio devono dimostrare di averne la capacità tecnica o economica e darne comunicazione anno per anno all’autorità competente».
Significa che le famiglie sono tenute a rilasciare una dichiarazione annuale al dirigente scolastico della scuola più vicina alla residenza, che ha a sua volta il dovere di verificarne la fondatezza. Gli studenti, poi, in base al decreto legislativo numero 62 del 2017, devono sostenere ogni anno un esame di idoneità nella sede di una scuola statale o paritaria. Al dirigente di quest’ultima, ma anche il sindaco, tocca vigilare sull’adempimento dell’obbligo scolastico.
Oltre le certificazioni

È chiaro che questi adempimenti sono importanti, imprescindibili. Ma anche che «un certificato annuale non basta per cogliere le ricadute di questo tipo di istruzione sullo sviluppo cognitivo, emotivo e sociale degli studenti». A riflettere è Katia Montalbetti, professore ordinario di Pedagogia sperimentale nella Facoltà di Scienze della formazione dell’Università Cattolica del Sacro Cuore.
La premessa è che «l’istruzione parentale, pur non essendo una novità, è ancora poco studiata: le ricerche al riguardo sono rare e mai longitudinali», ovvero sul lungo periodo. Si tratta inoltre di «un fenomeno molto eterogeneo, anche se in prevalenza tradotto in una homeschooling comunitaria». Detto questo, la professoressa sottolinea che la scelta dell’istruzione parentale (dettata da motivi di natura ideologica, pedagogica e anche organizzativa) si concentra su «tre principi che la stessa scuola italiana ha ben presenti» come «snodi sui quali interrogarsi ed evolvere: quello delle relazioni, tra pari e con gli adulti; quello degli spazi di apprendimento; e quello della responsabilità».
Di questo bisogna tener conto se non si vuole rischiare di considerare la scelta della scuola parentale solo in chiave oppositiva. E però tale scelta necessita di approfondimenti su aspetti diversi. Primo: la dimensione ristretta della socializzazione. Secondo: la sovrapposizione di ruoli, che può derivare anche da quella che Montalbetti definisce «ipertrofia genitoriale». Terzo: il rischio di impoverimento della dimensione conoscitiva, della perdita di spessore culturale. E, per finire, quello della chiusura in una società che, al contrario, chiede di aprirsi, di essere capaci d’interagire con gli altri.
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