«Cari genitori», la solitudine invisibile sui social media

Hanno migliaia di contatti, ma pochi veri legami: dietro la connessione continua si nasconde un profondo bisogno di ascolto e presenza
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«Cari genitori», la solitudine dei giovani
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La solitudine è sempre dolorosa, ma quella delle nuove generazioni lo è ancora di più. A me capita di incontrare adolescenti che quando mi chiedono aiuto, iniziano a parlarmi della scuola che va male, ma dopo un attimo aprono il sacco e parlano della loro solitudine.

Hanno una quantità di strumenti di comunicazione e di amici «virtuali» ma dicono di sentirsi soli.

Chiedo loro cosa vuol dire e mi rispondono che non hanno un compagno, una fidanzata, un genitore o un insegnate a cui parlare della propria solitudine. Chiedo perché e rispondono che non vogliono farli star male, ma è una scusa. Infatti aggiungono: «E cosa possono farmi?» quasi a dire che non credono di poter essere aiutati da qualcuno.

Soli tra mille connessioni

Eppure ragazze e ragazzi sono sanno bene l’importanza dell’amicizia, quella fatta di contatti fisici e di corpo, di abbracci e di rapporti reali che danno aiuto perché ti senti ascoltato. Pare che per manifestare l’affetto oggi si accontentino dei tanti cuoricini che si aggiungono agli infiniti messaggi coi followers.

La confidenza e l’intimità si è ridotta alle poche parole scambiate di sfuggita, mentre l’angoscia del futuro, la sfiducia nel mondo e lo sconforto si tengono per sé. Non si condividono con nessuno.

Un adolescente su 4 adesso si porta da solo le sensazioni negative e rischia più di un tempo l’isolamento, il ritiro sociale o i comportamenti autolesionistici.

I nostri giovani passano ore e ore sui social, a parlare di cose intime a sconosciuti, di cui ne accettano l’amicizia, benché ne conoscano il pericolo.

Chiediamoci però se la loro solitudine non sia perché nella realtà non hanno persone che li sanno ascoltare e sono in grado di intercettare il loro malessere.

Come aiutarli

Che possiamo fare? Penso che potremmo iniziare a casa col cambiare le prediche in dialoghi e con l’aumentare il tempo della conversazione su ciò che accade, sui fatti sociali.

A scuola facciamo emergere le loro riflessioni e le considerazioni, anche se sbagliate. Tiriamo fuori invece che mettere dentro. Facciamo più domande e diamo meno risposte già pronte.

Chiediamo loro: «Ma tu che ne pensi?» e guardiamoli negli occhi osservando cosa dicono col corpo. Stimoliamoli a pensare con la loro testa e spingiamoli a fare qualcosa per gli altri, non solo a competere.

Chiediamo loro di fare progetti e lasciamoli sbagliare o cadere perché così si impara a rialzarsi e ad aiutarsi reciprocamente. Smettiamola di considerarli bambini e riconosciamo che siano loro qualche volta a prenderci per mano.

Riproduzione riservata © Giornale di Brescia

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