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Bartoli: «Essere leader è far lavorare al meglio chi sta con te»

Intervista a Alberto Bartoli, amministratore delegato di Gefran spa, a proposito di tecnologie e organizzazione
Alberto Bartoli, 58 anni, ad di Gefran spa - © www.giornaledibrescia.it
Alberto Bartoli, 58 anni, ad di Gefran spa - © www.giornaledibrescia.it
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A parlare di tecnologia con chi la tecnologia la produce. Lui è Alberto Bartoli, 58 anni, 2 figli, passioni per i libri e le camminate in montagna. alla Gefran di Provaglio d’Iseo dall’aprile 2017 dopo aver passato 23 anni in Sabaf, di cui gli ultimi cinque da amministratore delegato. Adesso fa l’amministratore delegato dell’azienda dei Franceschetti: Ennio il fondatore (presidente emerito, Maria Chiara, la figlia, che fa il presidente). Gefran è quotata, come lo era Sabaf: «Mi piacciono le aziende quotate. Alzano la cultura industriale. Penso che piccolo non sia più bello», l’esordio di Bartoli. E allora partiamo da qui.

Una volta era bello oggi non più. Lo si dice spesso. Non crede che andiamo un po’ tutti dietro a correnti di pensiero più o meno di moda?
«Affatto. Per come è cambiato e ancor più per come cambierà il mercato, le aziende più grandi hanno inevitabilmente più strumenti per combattere e crescere. Prenda Gefran: noi spendiamo il 5-7% del nostro fatturato in ricerca e sviluppo ogni anno. Parliamo di 5-6 milioni l’anno. una cifra apprezzabile. Ma ci misuriamo con aziende che ne spendono 10 volte tanto. Il tema dimensionale è ineludibile, ma in Italia è poco sentito».

Beh, abbiamo sempre detto che il ruolo delle famiglie è essenziale. Veniamo da quella cultura, è difficile cambiare pelle.
«Capisco non sia facile ma bisogna percorrere quella strada, quella della crescita dimensionale, delle aggregazioni. Ma le aziende italiane non si aggregano. E questo è un po’ il risultato di una struttura organizzativa poco evoluta. Si preferisce avere il 100% di una cosa piccola, anziché il 40% di una grande. un errore ed è un errore soprattutto oggi».

Perché mai, cosa hanno di particolare questi nostri tempi tali da convincere un imprenditore a dividere la sua azienda con altri?
«Oggi le aziende sono più complesse e questo è frutto dei cambiamenti dei mercati e dell’arrivo delle nuove tecnologie. Un tempo le aziende avevano meno opzioni sul tavolo, minori possibilità di scelta. Oggi non è così. E troppe opzioni complicano la vita, anche per le aziende».

Mi aiuti a capire. D’accordo, ci sono tante opzioni ma perchè mai un imprenditore non dovrebbe scegliere, magari gli servirà più tempo...
«E già il tempo è un problema. Non abbiamo più i tempi di una volta. Ma, tornando alla complessità delle scelte: il problema sta qui. In un quadro complesso e in rapida trasformazione faccio fatica ad immaginare l’uomo solo al comando. Corri gravi rischi. Oggi sono tempi di lavoro di squadra. E quindi le aziende devono avere apporti nuovi, più allargati. Devono avere il coraggio di delegare. Vale per la proprietà, vale ovviamente anche per me che sono un manager. Devo saper scegliere la mia squadra che ha deleghe e obiettivi. Non devo dare istruzioni, devo essere in grado di dare una visione. Essere leader è far lavorare al meglio chi sta con te. Poi ovviamente misuro quelli della mia squadra sui risultati raggiunti. Esattamente come io a mia volta vengo misurato su quel che porto a casa. Io deve rispondere con i risultati. Se non arrivano vado a casa. Ma, mi ripeto, conta la squadra. L’ultima cosa che penso è di essere indispensabile».

D’accordo. Veniamo un po’ alla tecnologia. Voi al contempo la fate e l’utilizzate. Che idea si sta facendo, alle nostre latitudini, dell’arrivo delle cosiddette tecnologie digitali. Le nostre aziende sono pronte, sono attive, le stanno recependo?
«Oddio, un quadro aggiornato su come le bresciane si stanno muovendo non ce l’ho. In linea generale credo di poter dire che, parlando di piccole o micro aziende queste cambiano se è il committente che in qualche modo gli chiede di cambiare. Mi faccia però dire che, secondo me, il tema delle tecnologie non dovrebbe essere il primo problema per un’azienda anche se credo di poter dire che, a forza di parlarne, il tema-digitale è all’ordine del giorno. Io dico che le tecnologie vanno ovviamente usate e usate tutte. Però ribadisco quanto detto sopra: direi che in una ipotetica agenda del che fare in un’azienda al primo posto metterei la struttura organizzativa. Poi arrivano le tecnologie».

Che intende quando dice che le tecnologie vanno usate tutte?
«Tutte significa tutte quelle che il mercato offre. Robot e cobot compresi. Noi li usiamo e mi creda: il livello qualitativo medio di chi lavora sta crescendo».

Questo naturalmente ci porta al tema dei posti di lavoro che salteranno...
«Guardi, da noi non sta accadendo. Oggi il nostro Gruppo ha 760 addetti. Sono 60 in più, a livello mondiale, rispetto ad un anno fa».

Grazie a queste tecnologie avete fatto rientrare produzioni che prima facevate all’estero, in Cina ad esempio?
«Noi siamo presenti da molti anni in Cina. Ma no: non abbiamo fatto rientrare niente perchè andare in Cina per Gefran non ha significato delocalizzare ma andare a fare laggiù quel che serviva a quel mercato».

Ma secondo lei, alla fine, una volta che le fabbriche saranno iper tecnologiche, avremo più o meno posti di lavoro?
«Non glielo so dire. Non so se avremo più o meno posti di lavoro in fabbrica. Penso, però, che certamente avremo più gente che lavorerà negli uffici, nei laboratori di ricerca e progettazione. Perché questa è un po’ la sfida: fare lavori più intelligenti, più qualificati. Non di meno credo che una riflessione sul dove stiamo andando sia importante. Ho ascoltato con molto interesse, come sempre, Federico Faggin in occasione del recente Olivetti Day. Certo che una macchina resterà sempre una macchina, ma quando poi leggo che due robot riescono a trasferirsi in maniera autonoma informazioni su come migliorare un’operazione di lavoro la cosa mi lascia, diciamo così, preoccupato. Credo sia doveroso chiedersi dove arriveremo»

Più lavoro qualificato, più intelligente, più tecnici. Voi avete recentemente avviato la Gefran Academy, ovvero una sorta di scuola di alta formazione interna. un modo per rispondere alla mancanza di personale qualificato?
«Non solo. Avendone necessità, ci piaceva l’idea di poter formare all’interno alcune persone da inserire in alcune strutture chiave dell’azienda. Oggi abbiamo nove ragazzi in Academy. Per la gran parte sono ingegneri, ma abbiamo anche un filosofo, perchè avere nella squadra chi ha una formazione diversa è utile. Guardi quel che ha fatto Adriano Olivetti. Da noi lavorano, studiano, si confrontano con chi ha esperienza. un processo di contaminazione molto utile: l’esplosività (qualche volta velleitaria) dei giovani che si misura con chi è più anziano. Bella storia».

Lei ha citato Adriano Olivetti. Com’è che questo signore sta conoscendo, mi passi la suggestione, un nuovo futuro?
«Io sono un olivettiano convinto. L’idea di fondo di Adriano Olivetti era a suo modo semplice, oserei dire quasi banale: se le persone lavorano in un ambiente positivo rendono di più. Questo naturalmente significa far crescere anzitutto la consapevolezza di ognuno. E quindi far crescere l’intelligenza emotiva, il coinvolgimento, la passione, lo spirito critico che è un aspetto essenziale: io mi aspetto di sentirmi dire dei no dai miei. E questi no vanno ascoltati».

 

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