«I giovani cercano equilibrio, non solo successo nel lavoro»

Il dodicesimo rapporto sulla Qualità della vita, la ricerca promossa dal Giornale di Brescia in collaborazione con Bper Banca, si avvale quest’anno della collaborazione dei due atenei cittadini, ovvero l’Università degli studi di Brescia e l’Università Cattolica del Sacro Cuore.
Oltre agli interventi del rettore Castelli e del prorettore Taccolini, altri professori hanno commentato, ciascuno per il proprio ambito di studi, uno dei temi principali oggetto della ricerca.
Questo l’intervento della professoressa Roberta Sebastiani, professoressa ordinaria di Economia e Gestione delle imprese nella facoltà di Lettere in Cattolica a Milano.
Tra i giovani lavoratori, non solo italiani, si cerca sempre più il work-life balance, preferendo il tempo libero anche ad uno stipendio maggiore. A cosa si deve questo cambio radicale di prospettiva rispetto alle generazioni precedenti?
La centralità del work-life balance nelle aspirazioni delle giovani generazioni costituisce un importante segnale di una profonda e globale trasformazione in atto nei paradigmi valoriali, sociali e legati al ruolo delle tecnologie digitali, che ne plasmano l’approccio al lavoro.
Modelli sempre più emergenti, quali il down-shifting o il quiet quitting, che evidenziano la consapevolezza che il lavoro non rappresenta il pilastro attorno al quale ruotano il successo e la realizzazione personale, costituiscono un cambio di valori molto stimolante da osservare, perché prefigura una delle direzioni di cambiamento non solo a livello individuale, ma anche a livello socioculturale. A questo cambiamento hanno contribuito evidentemente anche la percezione di un’instabilità generalizzata legata a eventi geopolitici e ambientali che impone un ripensamento del concetto di sicurezza e delle sue basi e la ricerca di modalità di adattamento continuo, e la diffusa digitalizzazione che consente oggi una maggiore autonomia, flessibilità e personalizzazione dell’esperienza lavorativa e non.
Il tempo libero, in questo contesto, viene vissuto come un «contenitore» sempre più rilevante nella vita dei giovani, che però va riempito di senso e di significato affinché possa contribuire al ribilanciamento, in una direzione diversa da quella del lavoro, del processo di costruzione dell’identità personale.
In alcuni Paesi del Nord Europa la settimana corta è già realtà, proprio per venire incontro ad esigenze diffuse. In Italia esistono le condizioni per adottare la stessa misura?
Occorre evidenziare che il successo di queste esperienze è legato alle specificità del tessuto produttivo e al forte dialogo sociale. In Italia esistono esperienze ma ancora a livello marginale e sperimentale perché la diffidenza culturale verso la riduzione delle ore e l’impatto a livello stipendiale, le preoccupazioni su carichi di lavoro giornalieri e la copertura di turni, la significativa presenza di Pmi e di settori ad ampia variabilità organizzativa, nonché l’elevato tasso di lavoro autonomo (con una media di 47 ore settimanali lavorate) costituiscono delle criticità che ancora devono essere affrontate compiutamente.
L’evoluzione del quadro normativo rassicura sul fatto che si tratti di un processo in itinere, ma che forse richiederà ancora un certo tempo e soluzioni ad hoc, focalizzate sulla coniugazione tra risultati e benessere individuale, per essere implementato su larga scala.
La socialità della Gen Z è profondamente distante da quella delle generazioni precedenti. Eppure gli studi certificano che – nonostante smartphone e social – esiste un bisogno crescente di incontrarsi e conoscersi. Come si spiega?
Occorre osservare che i giovani vivono una nuova forma di esperienza: un’esistenza «ibrida», in cui la comunicazione digitale integra, anziché sostituire, le relazioni personali. La costante esposizione alla vita social comporta rischi come la Fomo – Fear of Missing Out –, la solitudine e l’ansia da confronto, ma proprio questi fenomeni generano una reazione: riemergono sempre più il desiderio di vivere esperienze condivise, il bisogno di sentirsi parte di un gruppo e la ricerca di rapporti autentici fuori dalla rete. Viaggi, eventi e persino «offline days» rappresentano la risposta concreta di questa generazione che sta acquisendo sempre più consapevolezza dei limiti della vita virtuale, che aspira a superare la frammentazione digitale ricercando un equilibrio, peraltro ancora fragile e in continua evoluzione, tra dialogo online e connessione umana.
I luoghi di aggregazione non sono più i bar, gli oratori, le piazze. Oggi possono essere anche non-luoghi come i centri commerciali. Ma il luogo fisico influenza la socialità stessa?
I luoghi fisici della socialità stanno tornando protagonisti nel dibattito contemporaneo, grazie soprattutto ai concetti di «terzi luoghi» e di servicescape. Il «terzo luogo», secondo la definizione del sociologo Ray Oldenburg, identifica quegli spazi informali e accessibili che si collocano al di fuori della sfera domestica e lavorativa: non solo bar, caffè, piazze o parchi, ma anche spazi di coworking e ambienti ibridi in cui il tempo libero si intreccia con l’impegno attivo e la sostenibilità sociale.

È proprio in questi nuovi contesti che la Gen Z trova terreno fertile per esprimere la propria voglia di relazione: i giovani si ritrovano spesso attorno ad un obiettivo condiviso, creano comunità fisiche e non solo virtuali e riscoprono la dimensione dell’incontro autentico, spesso anche come antidoto al senso di isolamento generato dalla società iperconnessa e urbana. Il servicescape, inteso come la scenografia tangibile degli spazi, svolge un ruolo chiave: ambienti progettati in modo attento e finalizzato – attraverso la scelta di arredi, colori, luci e layout – non solo possono accogliere, ma anche favorire la nascita di nuove connessioni e il benessere relazionale, trasformando i luoghi fisici in autentici laboratori di socialità contemporanea.
Si è a lungo parlato della pandemia da Covid come grave ostacolo alla socialità per i più giovani. Oggi esistono fenomeni o tendenze che frenano l’aggregazione formativa dei ragazzi?
Si tratta di un tema delicato che può sfociare nell’uso di luoghi comuni nei confronti di una generazione che ha tanto da esprimere e che vuole crescere, forse rispetto a competenze e progetti diversi da quelli delle generazioni precedenti. La prospettiva da adottare dovrebbe essere più costruttiva, mirata a superare la visione che vede le nuove generazioni più distanti e trattenute rispetto all’aggregazione formativa, per focalizzare l’attenzione sullo sviluppo di contesti e proposte capaci di recepire il desiderio della Gen Z di avere un impatto forte sugli individui e sulla società.
Si tratta quindi di sviluppare risposte articolate, capaci di ripensare l’esperienza formativa, non solo nella scuola ma anche (e forse più) nel tempo libero, non solo come trasmissione di competenze, ma come palestra di sperimentazioni protette, di progettualità libera, di sviluppo individuale e di crescita collettiva.
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