Fulvio Moneghini: «L'ultramaratona è una metafora della vita, si viaggia dentro se stessi»
Un giorno il commesso di un negozio di abbigliamento gli disse che per lui ci voleva una taglia forte, perché era troppo grosso. Così Fulvio Moneghini, che ora ha 56 anni, lasciò le arti marziali per darsi al podismo e da allora non si è fermato più. Ha cominciato con le competitive, è arrivato alla maratona, poi è andato oltre, scoprendo un mondo che non ha più abbandonato, quello delle corse di lunga distanza.
«È popolato da persone semplici – spiega – che praticano sport per il gusto di farlo. Può capitare di trovarti come compagno di fatica uno che non hai mai visto prima. Si soffre assieme, ci si conosce, magari ci si perde di vista per ritrovarsi chilometri o mesi dopo in un’altra gara. L’ultramaratona è una metafora della vita, un lungo viaggio dentro se stesso e verso gli altri».
Fulvio le ha provate proprio tutte. «L’esperienza più drammatica? Quella dell’unica edizione della Barolo-Courmayeur, lunga 560 km e conclusa in 6 giorni. Sviati da una mappa poco chiara una notte io e altri concorrenti finimmo in un bosco, braccati da lupi e cinghiali. E l’indomani, colti da una crisi di fame, ci salvò una signora affacciata a una finestra. Le chiedemmo del pane, aveva solo i crackers, ci saziammo con quelli. Mai trovati così buoni».
Angelo del deserto
Moneghini ha anche disputato la Marathon des Sables e, in una corsa simile si è guadagnato l’appellativo di angelo del deserto, per avere salvato dalla disidratazione due concorrenti, una delle quali era finita semisommersa da una duna. Ciò non gli impedì poi di continuare la corsa e di portarla a termine. «Ciò che mi rattristò fu il comportamento di un atleta inglese cui chiesi aiuto. Mi disse che non poteva fermarsi, perché avrebbe compromesso la sua gara. Invece poi alla fine terminò dietro di me».
Il sonno
Il problema più grande, nelle corse che durano giorni, è quello di non poter dormire con effetti a volte esilaranti. «Mi è capitato più volte di buttarmi lungo la strada per schiacciare un pisolino, la gente equivocava e veniva in mio soccorso, credendomi in difficoltà». Allora Fulvio si è inventato i micro-cicli di-sonno. «Una tecnica che ho perfezionato col mio amico Sandro Gaffurini. Mi metto dietro di lui, agganciandomi al suo zaino, mi faccio guidare nella corsa e intanto dormo. Bastano pochi minuti e dopo mi sento fresco come una rosa».
Il suo anno d’oro è stato il 2019 quando ha concluso le tre grandi classiche italiane: Cento chilometri del Passatore, Nove Colli e Milano Sanremo per un totale di oltre 1700 km. Poi è arrivato il Covid che ha bloccato ogni attività, non gli allenamenti. «Sfruttavo il giardino della mia casa a Salò, correndoci attorno per ore. E quando è stato possibile uscire, quei 200 metri a distanza da casa che ci venivano concessi mi sono sembrati un regalo inestimabille».
Alla straordinaria carriera di Moneghini hanno contribuito una sana alimentazione e una corretta tecnica di corsa che lo ha tenuto lontano dagli infortuni. «Il segreto non è andare mai i propri limiti, saperli riconoscere e rispettare. Non ha senso, dopo tante ore, scattare verso la linea del traguardo per rosicchiare qualche secondo. Meglio conservare qualche energia per poi recuperare».
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