Gli Usa contro l’Unione Europea tra dazi e nuovi valori

Sono in molti a chiedersi se quella in atto sia davvero una «tattica» di Trump, e se il presidente sia consapevole delle conseguenze che sta generando
Trump insieme al vicepresidente JD Vance in un incontro con il segretario generale della Nato Mark Rutte - Foto Ansa © www.giornaledibrescia.it
Trump insieme al vicepresidente JD Vance in un incontro con il segretario generale della Nato Mark Rutte - Foto Ansa © www.giornaledibrescia.it
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In questi giorni si susseguono annunci di nuovi dazi da parte dell’amministrazione di Trump che vengono poi smentiti da rettifiche che li annullano. Questo modo di affrontare un tema così complesso e rischioso, sta iniziando a generare diverse preoccupazioni sia a livello politico sia a livello economico.

La forte tensione che il Presidente americano ha generato intorno ai dazi va interpretata anche tenendo conto di tutta una serie di effetti, già rilevabili nel sistema economico globale, che rischiano di determinare scompensi duraturi sulle economie coinvolte. «I dazi possono sembrare una misura vantaggiosa nel breve termine, ma nel lungo periodo tendono a generare più problemi di quanti ne risolvano, danneggiando i consumatori, le imprese e la crescita economica complessiva».

Questa frase non è tratta da un testo elaborato da una mente umana, ma è la risposta a una precisa domanda posta ad un’app di AI. Se un sistema di algoritmi, che certamente non può essere considerato infallibile, ma che ha al proprio interno uno schema logico che viene alimentato da milioni di dati e di informazioni, arriva a questa lapidaria risposta, qualche riflessione in più andrebbe fatta. Per la verità, economisti e molti politici dall’inizio di questa altalenante modalità di comunicazione hanno sottolineato i rischi che un sistema di dazi può generare.

Sappiamo che, ad esempio, i dazi imposti della prima amministrazione Trump hanno portato ad aumentare l’inflazione, hanno ridotto le capacità competitive del mondo dell’agricoltura, hanno creato i presupposti per una crisi nel mondo automobilistico e via elencando. Sappiamo anche che, in generale, quando si introducono i dazi, l’aumento dei costi di beni importati porta a sovraprezzi che, esponenzialmente, si trasferiscono ai consumatori. Sappiamo che le politiche tariffarie nei Paesi che le adottano finiscono con il ridurre l’effettivo potere d’acquisto portando, come conseguenza non immediata, a ridurre i consumi interni.

Questo, alla fine dello scorso decennio, è successo quando gli Stati Uniti hanno lanciato una guerra commerciale con la Cina applicando nuovi dazi sui prodotti elettronici e su beni di consumo, con il risultato che è stato quello di vedere aumentare, ad esempio, il costo di lavatrici o di smartphone. Allo stesso tempo, ormai, sono conosciuti gli effetti legati alle contromisure che vengono adottate dai Paesi colpiti dalle restrizioni commerciali che introducendo, a loro volta, dazi e modificando tariffe, riducono la potenzialità delle azioni commerciali internazionali.

Basta ricordare l’effetto generato, nel 2018, quando l’Unione Europea ha imposto dazi sull’acciaio e sull’alluminio Usa ricavandone dazi su vino e formaggi Ue che hanno colpito settori importanti dell’economia europea. Si sa che l’introduzione di dazi finisce nel medio-lungo periodo col far perdere competitività alle imprese locali. Questo è successo in Argentina che, nei decenni scorsi, ha visto crollare il settore dell’automotive a seguito di scelte protezionistiche che hanno eliminato gli stimoli all’innovazione indotti dalla concorrenza.

Per andare un po’ indietro negli anni, la grande crisi degli anni ’30 è stata alimentata dall’introduzione dei dazi dello Smoot-Hawley Tariff Act che ha finito con il generare una globale (per allora) guerra commerciale e una contrazione ulteriore dell’economia. Quanto sta accadendo, oltre alle considerazioni economiche, porta a riflessioni di natura più valoriale. Il presidente Mattarella ha chiaramente descritto i limiti «etici» di un sistema che rinnega le logiche di mercato e la collaborazione tra Paesi evidenziando i rischi estremi che ciò determina.

In questi giorni, poi, il dibattito si concentra sul tira e molla degli annunci e sugli effetti che questa modalità comunicativa genera. Sono molti a chiedersi se davvero questa sia una «tattica» di Trump, come all’inizio era stata definita, chiedendosi se il presidente Usa sia consapevole delle conseguenze che sta generando. I mercati, infatti, stanno soffrendo questo modo di operare, l’effetto annuncio deprime, portando, per esempio, a sconquassi sui listini. La confusione apre le porte alla speculazione e genera un ulteriore elemento di incertezza nel sistema economico globale già abbondantemente destabilizzato dalle guerre.

Buttare benzina sul fuoco non sembra un’idea tanto positiva. Va anche detto che alcuni iniziano a chiedersi se, detta in un modo un po’ dialettale, Trump «ci è o ci fa». Qualche dubbio sia nel merito sia nel metodo emerge nei dibattiti, a maggior ragione quando una chat privata resa «per errore» pubblica ha fornito elementi fortemente critici nei confronti del proprio capo da parte del vicepresidente Vance.

Naturalmente si vanno poi a cercare i «motivi» ultimi delle politiche Usa che stanno spingendo la Presidenza americana a un importante braccio di ferro nei confronti della Comunità Europea.

Sempre da questa chat, impropriamente diffusa, emerge una sorta di avversione esplicitamente dichiarata da Vance nei confronti della vecchia Europa la cui genesi appare preoccupante. Nei prossimi giorni vedremo come questa situazione evolverà prendendo la strada della commedia piuttosto che del dramma che molti economisti prospettano o se prevarrà una sceneggiatura più razionale e saggia.

Riproduzione riservata © Giornale di Brescia

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