L’approccio di Trump e le speranze di pace

Donald Trump aveva garantito di risolvere in pochi giorni le due grandi e tragiche crisi della nostra epoca, in Ucraina e a Gaza. A quattro mesi dal suo insediamento, pochi sono stati i progressi e almeno nel caso di Gaza si è assistito a un ulteriore peggioramento di un dramma senza fine, che dovrebbe scuotere ben più di quanto non facciano le coscienze delle opinioni pubbliche e dei governi occidentali. A dispetto delle promesse, era oggettivamente irrealistico pensare che la nuova Amministrazione statunitense potesse in poco tempo imporre un proprio piano di pace a Russia e Ucraina o indurre alla moderazione e al buon senso un governo, quello d’Israele, estremo e radicale come mai nella sua storia.
La domanda che è lecito porsi non è quindi se Trump abbia disatteso promesse da loro irrealizzabili. Ciò su cui ci si deve interrogare è se il suo approccio di politica estera possa aiutare a trovare una soluzione ai dilemmi dell’ordine internazionale o se non rischi invece di aggravarli.
In che cosa consiste questo approccio e in che modo condiziona, o potrebbe condizionare, le due crisi? Trump, lo abbiamo imparato bene, non ha convinzioni solide né è in grado di elaborare riflessioni articolate. Agisce ispirato da una logica «transazionale» (transactional), per usare un anglismo che ha contribuito proprio lui a sdoganare anche in Italia. Dove tutto è misurato sulla base dei costi-benefici che scaturirebbero da ogni interazione – umana o statuale, nella politica o negli affari – la cui funzione primaria, appunto, è quella di realizzare un interesse o un profitto.
La relazione è per definizione una transazione. E quindi non esistono amici o nemici permanenti, principi o valori, norme e regole, ma solo interessi da realizzare nello scambio-transazione. Centrale diventa quindi la definizione di cosa costituisca l’interesse e di quali strumenti si debbano utilizzare per raggiungerlo. L’erraticità, l’approssimazione e l’incoerenza dell’agire trumpiano – così visibile nella vicenda dei dazi – rendono qualsiasi loro definizione aleatoria ed esposta ai voltafaccia del Presidente.
Due elementi di questo interesse, uno pubblico e uno privato, appaiono però centrali. Quello pubblico rimanda alla volontà di liberare gli Stati Uniti dai vincoli dell’interdipendenza e della globalizzazione, riguadagnando ad esempio sovranità industriale, ed erodendo l’influenza maturata negli anni da quello che è il riconosciuto avversario di potenza degli Usa, la Cina. Quello privato o patrimoniale – perseguito oggi con ostentata sfacciataggine come abbiamo visto anche in occasione dell’ultimo viaggio del Presidente in Medio Oriente – è l’arricchimento suo, della sua famiglia e di alcuni «amici».
Nei due dossier da cui siamo partiti, questo approccio cosa produce? Volontà di disimpegno anche a costo di pesanti concessioni all’aggressore, come abbiamo visto sull’Ucraina. Propensione ad applicare categorie neo-imperiali, peraltro centrali del discorso di politica estera del Trump 2 (e diversamente dal Trump 1), in virtù delle quali si lascia sostanzialmente carta bianca a riconosciuti attori imperiali regionali, siano appunto la Russia o Israele (a Gaza, ma anche in Cisgiordania).
Ma anche evidenti cortocircuiti, laddove gli interessi privati della famiglia Trump (e del suo inviato speciale in Medio Oriente, Witkoff) spingono a rafforzare una relazione speciale, quella con l’Arabia Saudita e i Paesi del Golfo, che rende più complesso il rapporto con Israele o dove la volontà di capitalizzare sulle difficoltà dell’Ucraina, attraverso un accordo quasi neo-coloniale sullo sfruttamento delle sue risorse, porta ad accrescere l’interesse degli Usa a preservarne la sovranità. Cortocircuiti, questi, assai visibili nelle oscillazioni durante gli improduttivi negoziati di pace sull’Ucraina o nell’instabile rapporto con Netanyahu.
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