Donald Trump in Medioriente cerca l’exploit diplomatico

Già in campagna elettorale, con alcuni proclami rodomontici, promise di risolvere i due principali conflitti in corso in poche settimane: quello russo-ucraino e quello tra Israele e Hamas, senza ad oggi esservi riuscito.
In verità la complessità dei due scenari e la pluralità di attori coinvolti richiede una non comune capacità contrattuale anche nel saper dosare ricompense e minacce più o meno velate, per ottenere un risultato che sia vantaggioso per le parti. E per far ciò il tycoon utilizza una sorta di diplomazia economica più che i criteri tradizionali della politica estera.
Galvanizzato dal successo (autoproclamato) di essere riuscito a evitare un conflitto nucleare tra Pakistan e India, facendo leva proprio sugli interessi commerciali, il Presidente USA cerca ora di sfruttare il suo primo importate viaggio politico all’estero nel Golfo Persico per affrontare lo scottante dossier del Medio Oriente, oggi non più di mera valenza regionale, ma con reali implicazioni di carattere globale.
— Donald J. Trump (@realDonaldTrump) May 10, 2025
Dietro il mantra del «deal», degli affari, seppur importanti poiché destinati a rivitalizzare l’economia statunitense -sarebbero circa 600 i miliardi in accordi tra USA e sauditi, comprendenti settori come difesa, energia, intelligenza artificiale e infrastrutture-, si cela la vera posta in gioco: la stabilità d’area.
Un obiettivo cruciale tanto per gli Stati Uniti quanto per l’Arabia Saudita, determinata a tutelare i propri investimenti fatti per la diversificazione della sua economia e oggi vero fulcro del sistema politico internazionale. Riyadh si conferma l’attore capace di riunire al tavolo negoziale figure come Marco Rubio e Sergej Lavrov sul dossier Ucraina, ma anche di spingere Washington a riaprire il dialogo con Teheran.
La stabilità passa infatti per l’Iran, con il quale Riyadh ha riallacciato le relazioni diplomatiche, ma anche attraverso la Siria, verso la quale, grazie alla mediazione turco-saudita, Trump ha deciso di togliere le sanzioni, primo passo necessario per poter ricostruire un paese, oggi ancora fortemente frammentato, conteso da interessi di paesi terzi, come la stessa Turchia e Israele e, localmente, tra forze curde, sciite e sunnite, queste ultime guidate da Al-Jolani, l’(ex) jihadista in cravatta come è stato definito, l’uomo forte sul quale il presidente Usa ha deciso di scommettere per dare al Paese un «nuovo inizio».
Ieri il Presidente Trump era in Arabia Saudita 🇸🇦 . Oggi in Qatar 🇶🇦 , domani negli Emirati Arabi Uniti 🇦🇪
— Emiliano Morgia - IL TRUMPISTA (@ilTrumpista) May 14, 2025
MAGA senza sosta , lavora per la Pace nel mondo. 🌍 pic.twitter.com/xqxrd8mbnJ
I costi stimati per la ricostruzione oscillano tra i 250 e i 400 miliardi di dollari, cifre che, visti gli ingenti danni alle infrastrutture, appaiono sempre più realistiche. E dalla stabilità della Siria dipende in parte anche quella del Libano, altro paese in profonda crisi sistemica, dove l’ingerenza israeliana è sempre più pressante, le istituzioni statali hanno perso la loro effettività e nel quale gli investimenti per la ricostruzione ammonterebbero a 11 miliardi.
Al di là delle implicazioni di carattere economico, tre, almeno i significati politici del viaggio di Trump. Il primo è che si tratta di una missione i cui contenuti sono esplicitamente anti-russi. L’apertura alla Siria fa sì che il paese, dopo settant’anni amicizia e collaborazione con Mosca, graviti ora entro la sfera di interesse statunitense, privando definitivamente la Russia di un importante appoggio sul Mediterraneo.
Le conseguenze dirette sono una riduzione dello status di potenza, un indebolimento delle proprie capacità militari e una perdita di rilevanza nei principali dossier mediorientali. Non meno importante è l’esclusione dalla futura ricostruzione siriana, un business miliardario che avrebbe rappresentato per l’industria russa un’opportunità concreta di rilancio, soprattutto in vista delle sfide economiche che faranno seguito alla guerra in Ucraina.
Il secondo è un messaggio a Teheran: la perdita della Siria, insieme alla riduzione dell’influenza sul Libano e nello Yemen rimarca che la catena della resistenza è ormai andata in frantumi e che la postura espansionista iraniana nella regione è definitivamente compromessa.
Il significato sotteso è che per evitare il rischio di un isolamento strategico resti solo la via del negoziato, sia con gli USA che con i paesi del Golfo, i quali, all’indomani del viaggio di Trump sono ancora più legati a Washington.
Il terzo riguarda Netanyahu. L’ostinato rifiuto di formulare una soluzione politica per Gaza, la spinta per un attacco contro l’Iran e le continue e ingiustificabili azioni militari contro Libano e Siria sono motivi di irritazione per Trump, tanto da indurlo a escludere Israele dal suo tour nella regione.
Un’esclusione dal significato simbolico, quasi una minaccia di ritiro di quell’appoggio incondizionato sul quale Netanyahu ha sempre fatto leva.
Eppure la stabilizzazione passa anche per Israele, il cui ravvicinamento a Riyadh secondo gli Accordi di Abramo rimasti incompiuti rappresenterebbe l’ultimo tassello verso la pacificazione della regione, mediata e risolutamente voluta da Mohammad bin Salman. Chissà se, in caso di successo, sia lui il prossimo Premio Nobel per la Pace.
Riproduzione riservata © Giornale di Brescia
Iscriviti al canale WhatsApp del GdB e resta aggiornato
@News in 5 minuti
A sera il riassunto della giornata: i fatti principali, le novità per restare aggiornati.
