Tel Aviv non lascia scampo ai suoi nemici

Dignità, saggezza e opportunità sono i tre cardini sui quali il neoeletto presidente iraniano Masoud Pezeshkian ha costruito il suo discorso di insediamento lo scorso 30 luglio, giurando fedeltà alla Costituzione e alla Repubblica Islamica dinanzi alle massime cariche dello Stato, ai rappresentanti di oltre 80 paesi stranieri e ai i leader dei più importanti attori non statuali del Medio Oriente: Hezbollah, il Movimento per il Jihad Islamico, Ansar Allah (gli Houthi) e Hamas, componenti di quella catena di resistenza contro Israele di cui Teheran si serve per consolidare la propria sfera di influenza nella regione.
E mentre asseriva di nutrire vivide speranze per il futuro, promettendo un approccio costruttivo alle relazioni internazionali, la grande area della Mezzaluna sciita, che dall’Iran si estende sino alle coste mediterranee del Libano, passando attraverso l’Iraq e la Siria, iniziava una precipitosa discesa verso una dimensione di instabilità dagli esiti potenzialmente drammatici, provocata da due operazioni in profondità condotte da Israele (la prima accertata, la seconda presunta) contro Hezbollah e Hamas, nell’ambito di una strategia ormai consolidata.
Si tratta infatti di uno degli assi portanti della lunga guerra sommersa in difesa di Israele e nel perpetrare la vendetta, anche a distanza di tempo, che ha caratterizzato la storia dello Stato ebraico, prima contro i criminali di guerra nazisti, responsabili della Shoah, poi contro menti ed esecutori materiali dei più sanguinosi attentati terroristici che colpirono Israele, Monaco nel 1972 su tutti, e che prevede in casi eccezionali, ma ultimamente sempre più frequenti, la possibilità di condurre omicidi mirati contro i nemici di Gerusalemme.
Di particolare rilevanza sono state le azioni degli ultimi due giorni, non solo per le figure di alto spicco colpite: l’una militare, Fuad Shukr, tra i più stretti collaboratori di Nasrallah, segretario generale di Hezbollah, accusato di avere coordinato un attacco missilistico sulle alture del Golan; l’altra politica: Ismail Haniyeh, guida politica di Hamas dal 2017, artefice della stretta alleanza con Teheran, nonché vero volto diplomatico dell’organizzazione terroristica, che da Doha, sede scelta per il suo esilio volontario, tutelava i rapporti con Turchia, Egitto e Iran; ma soprattutto per le modalità d’azione scelte da Israele.
A differenza di operazioni similari fatte in passato da agenti infiltrati sul campo, il primo ministro israeliano, il solo che possa autorizzare un omicidio «per la suprema difesa dello Stato» e i suoi consiglieri militari hanno optato per due attacchi in profondità, portati a termine dall’aviazione, l’uno a Beirut, l’altro a Teheran, violando lo spazio aereo e quindi la sovranità non solo dei due Paesi, ma per l’Iran anche di nazioni limitrofe. Era dal 2006 che Israele non colpiva la capitale libanese da quando, dopo la guerra di 34 giorni contro Hezbollah, si era instaurata una sorta di tregua armata, basata sulla deterrenza.
La morte di Shukr aumenterà la tensione sul fronte settentrionale e, ora che anche Teheran è stata oggetto di un attacco diretto, si tratterebbe – qualora la paternità israeliana fosse ufficialmente dimostrata – della seconda azione militare dall’aprile di quest’anno contro la Repubblica Islamica, al di là dell’accesa retorica del momento dal valore sicuramente politico-propagandistico che promette vendette, lacrime e sangue, gli ayatollah potrebbero approfittare della presenza nella capitale dei principali capi dei gruppi militanti per organizzare una ritorsione congiunta ma asimmetrica, che non veda il diretto coinvolgimento dello Stato iraniano, che lasci mano libera agli Houthi e a Hezbollah di condurre azioni esterne, come di recente hanno fatto le milizie yemenite con un drone su Tel Aviv il 21 luglio ed Hezbollah con il lancio di razzi sulle cittadine del nord del Paese, e anche attentati terroristici direttamente sul territorio israeliano.

Per lo scenario interno un’incognita è rappresentata dalle fazioni palestinesi in Cisgiordania, che ad oggi, in segno di protesta, si sono limitate a indire uno sciopero generale, ma non a intraprendere azioni terroristiche. Sullo scacchiere internazionale, preoccupanti sono sicuramente le dichiarazioni di Erdogan che due giorni fa, a sostegno dei palestinesi, ha minacciato di intervenire in Israele, come fece in passato in Libia e nel Nagorno-Karabakh. Pur non specificando il tipo di intervento, gli esempi citati indurrebbero a pensare a un impiego sul campo di consiglieri militari e alla fornitura di armi e tecnologia alle milizie.
Di certo l’attacco contro Haniyeh è un durissimo colpo alla reputazione in materia di sicurezza e alle capacità di difesa dell’Iran, soprattutto ora che cerca di tutelare il potere di influenza acquisito nella regione e in un momento in cui il 14° Presidente della Repubblica Islamica afferma di nutrire serie speranze per il futuro.
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