In Siria la Turchia cerca una nuova leadership

La politica estera di Erdogan punta su due concetti: autonomia strategica e neo-ottomanesimo
Erdogan a Riyadh - Foto Ansa © www.giornaledibrescia.it
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La strategia del presidente Recep Erdogan in materia di politica estera della Turchia, da quando è salito al potere nel 2002, è stata farne una potenza regionale. Ha puntato su due concetti: autonomia strategica e neo-ottomanesimo. Con il primo punta all’indipendenza per energia e difesa, con il secondo a far crescere l’influenza della Turchia in Medio Oriente, mantenendo l’occhio attento su Libia, Balcani (Armenia-Azerbaijan) e Asia centrale.

La guerra di Gaza, con le sue propaggini libanesi e (da qualche giorno) siriane, nonché il perdurare dello sforzo bellico della Russia in Ucraina, gli sta offrendo l’opportunità di riaffermare la leadership nella regione, se non di divenire l’arbitro dei destini della Siria e della dinastia al governo da un cinquantennio: gli Assad. Ha, a favore, la sua crescente forza, accoppiata alla crescente debolezza dei suoi avversari. È forte, il Sultano, per una situazione interna sotto il suo pieno controllo, politico e sociale.

È forte per un miglioramento dell’economia, dove l’inflazione (pur appena sotto il 50 per cento) è in calo; è forte per gli investimenti fatti nell’industria della difesa; è forte, infine, per il carisma di cui gode in tanta parte del mondo islamico. Per contro, i suoi antagonisti nella leadership regionale incontrano difficoltà.

L’Iran, le cui ambizioni sono state frustrate dal confronto con Israele e dal ridimensionamento di Hezbollah. Lo stesso Hezbollah, verso il quale non nutre alcuna simpatia. In difficoltà è pure l’amico Putin, per lo sforzo bellico in Ucraina, per la crisi della sua economia. Tanto in difficoltà da non essere stato in grado di continuare ad assicurare la protezione al regime amico di Bashar al-Assad.

Con quest’ultimo, Erdogan ha tentato, nei due passati anni, di trovare una intesa. Di riallacciare, senza successo, il rapporto fraterno (come lui stesso lo definiva) con il Rais di Damasco, tale quale era prima del piombare della Siria nella guerra civile.

Putin ha sinora frenato Erdogan in terra siriana; meglio, a frenarlo è stata la consapevolezza di quanto strategico fosse l’interesse della Russia per la Siria, risalente alla guerra fredda. Il Sultano non poteva permettersi di sfidare lo Zar. Il cosiddetto processo di Astana (intesa tra Russia, Iran e Turchia per il nord siriano) ha evitato il confronto militare tra le truppe turche e quelle russe nella regione di Idlib, a sud-ovest di Aleppo.

Per rafforzare la tregua Erdogan ripeteva l’impegno a salvaguardia dell’integrità territoriale della Siria, così come fa oggi. Quella turca non era un’occupazione, ma una presenza a tutela della sicurezza dal terrorismo curdo. Ora, tuttavia, Erdogan sembra sentirsi in grado di fare un ben lungo salto oltre: portare la sfida finale al regime di Assad, fomentandone indirettamente la caduta. E Putin? Gli garantirebbe, per via della propria influenza sugli insorti, la salvaguardia delle basi militari navali e aeree. In tal modo rassicurato, Putin potrebbe dare il via libera per la spallata finale ad Assad, con l’America di Trump voltata dall’altra parte. La caduta di Assad ridimensionerebbe il ruolo dell’Iran nelle regione.

Degli eventi di questi giorni la Turchia appare il regista occulto, spinge il tutto, ma si mantiene a lato. L’offensiva è portata innanzi dal gruppo Hayat Tahrir, una derivazione di Al-Nusra, sostenuta da Erdogan già agli inizi della guerra in Siria. Altre milizie filo-turche, raggruppate nell’Armata nazionale siriana, fortemente anti-curda, hanno affiancato Hayat Tahrir nell’offensiva su Aleppo.

Il governo turco vi vede anche un modo per facilitare il ritorno di almeno tre milioni di profughi siriani, la cui presenza non è gradita dalla popolazione, oltre a premere sulle casse pubbliche.

Ankara osserva parlando di de-escalation. Ma i suoi muscoli appaiono tesi, pronti allo scatto.

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