La sinistra alla prova dell’effetto Mamdani

«Non ci hanno visto arrivare» - aveva esclamato la Schlein al momento di festeggiare la sua sorprendente elezione a segretaria del partito, irridendo alla dabbenaggine dell’intero gruppo dirigente del Pd, che s’era fatto sorprendere indifeso. Dei suoi progetti liquidatori della nomenclatura del maggiore partito della sinistra non aveva mai fatto mistero.
Li aveva sbandierati già al tempo di «Occupy Pd». Li aveva ribaditi al momento dell’assalto finale al vertice del partito, quando aveva promesso di fare piazza pulita dei cacicchi e capi bastone, i potenti caporioni locali che fanno il bello e il brutto tempo nella vita del partito. Non l’avevano vista arrivare, ma - quel che più importa - non avevano visto arrivare nemmeno i cambiamenti che la giovane pasionaria di sinistra avrebbe apportato.
Al momento della sua elezione, la reazione prevalente dei maggiorenti del partito era stata di far buon viso a cattivo gioco. Persino Bonaccini, che pure s’era visto sfilare di mano, dalla sua vice in Regione Emilia Romagna, l’elezione a segretario, sancita dagli iscritti del partito, aveva finito col compiacersi obtorto collo della sua elezione. Una ventata di giovinezza era benvenuta. Poteva risultare salutare a un partito un po’ acciaccato. Tutto si sarebbe risolto - si consolarono i più - in un benefico innesto di nuove energie. Poco male se era accompagnato da una carica dissacrante della vecchia dirigenza e da una riverniciatina di sinistra del partito. Si sbagliavano. Il Pd è passato dall’originaria strategia del partito a vocazione maggioritaria a quella di forza promotrice del campo largo. Tra le due formule corre una bella differenza.
Con la prima, il Pd si proponeva di costruire un’alternativa di governo, dotata di un leader e di un programma. Con la seconda, si è passati all’idea di assemblare le forze, unite semplicemente da un fine in negativo: sloggiare dal governo la destra. Il pericolo, insito in questa strategia raccogliticcia, era di costruire uno schieramento informe, senza leader e senza programma. La Schlein pensava, e pensa tutt’ora, di rimediare a questo deficit progettuale con una buona dose di restyling dell’anima di sinistra, tradita dalla passata dirigenza del partito.
L’anima in effetti l’ha trovata, la coesione del campo largo, meno. Le ragioni paiono due. La prima: l’anima è rimasta per così dire incorporea. Non si è materializzata in un programma e in un leader. La seconda: il richiamo forte alle ragioni della sinistra hanno invalidato le ragioni che avevano dato vita al Pd. Al momento della sua costituzione, l’idea fondativa era stata infatti di trovare una sintesi tra più anime, tutte riconducibili ad un riformismo: la post-comunista, la cattolico-democratica, la socialista, la liberale. In parole spicciole, si proponeva di costruire una casa comune per tutte le aree e tradizioni politiche rimaste orfane dei loro partiti (Pci, Psi, Dc, partiti laici minori) travolti dallo tsunami di Tangentopoli.
Quell’amalgama non è mai stato trovato. Ora meno che mai. La Schlein ha sperato che intervenisse una buona affermazione elettorale del Pd, così da renderlo dominante nella coalizione, e parallelamente di ottenere una buona performance del campo largo nelle varie competizioni amministrative. Avrebbe conferito una forte credibilità alla sua strategia. Finora, invece, c’è solo una timida ripresa elettorale del Pd e una riuscita incerta del campo largo.

Si apre ora la scommessa sul voto referendario della primavera, relativo alla riforma della giustizia. Questo appuntamento potrebbe rappresentare la prova della verità per la sua strategia. Le premesse non paiono confortanti. Nel partito è in atto un grande risveglio delle correnti, presagio in genere di burrasca in arrivo per il segretario in carica. Una variabile a lei favorevole, potrebbe essere il clamoroso successo a New York del socialista Mamdani. Potrebbe essere il segnale che in Occidente il vento si è girato, che cominci a soffiare nelle vele della sinistra.
La segretaria dem potrebbe ricavarne nuovo slancio per la sua leadership nel partito e nel campo largo. Per la prima volta dal varo della Seconda Repubblica, la sinistra potrebbe affrontare la sfida delle urne senza dover ricorrere a un papa straniero, come ha fatto con Prodi e Rutelli. Sarebbe comunque l’abbandono definitivo del progetto originario del Pd a vocazione maggioritaria che scommetteva sulla sintesi di più anime riformiste e non sull’egemonia della sola sinistra.
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