Gli obiettivi del nuovo conflitto di Netanyahu

Nel 1848, durante un acceso intervento alla Camera dei Comuni, Lord Palmerston, allora Segretario di Stato agli Esteri, sanciva uno dei principi chiave della Realpolitik, affermando che in politica non esistono alleati eterni, né nemici perpetui. Nulla lo dimostra meglio della storia delle relazioni tra Israele e l’Iran: alleati discreti durante la monarchia Pahlavi, oggi protagonisti di un nuovo conflitto che rischia di destabilizzare ancor più tutto il Medio Oriente.
Alla luce degli eventi odierni sembra impossibile vedere l’allora vice ministro della guerra dello Shah incontrarsi segretamente a Tel Aviv con Moshe Dayan e Ezer Weizmann, alla guida del Dicastero della Difesa per discutere dello sviluppo congiunto di un progetto missilistico con potenzialità nucleari. Sono i paradossi della storia, che si legano ai mutui interessi, divenuti divergenti all’indomani della rivoluzione del 1979. In questi 45 anni non solo le relazioni, ma soprattutto la retorica è mutata profondamente, involvendosi in due forme speculari di radicalismo religioso che alimentano la polarizzazione del Medio Oriente: il messianismo sciita iraniano e il nazionalismo religioso ebraico israeliano.
🔴 ELIMINATED: 9 senior scientists and experts responsible for advancing the Iranian regime’s nuclear weapons program.
— Israel Defense Forces (@IDF) June 14, 2025
All of the eliminated scientists and experts, eliminated based on intelligence, were key factors in the development of Iranian nuclear weapons.
Their… pic.twitter.com/B33dGTyG1v
Entrambe utilizzano richiami divini: mentre Netanyahu, ieri, nelle sue primissime dichiarazioni dopo l’operazione Mivtza Am Ke-Lavi (Un popolo come un leone) affermava: «Con l’aiuto di Dio, avremo molti altri successi», il nuovo Comandante dei Pasdaran minacciava di aprire «le porte dell’inferno» per vendicare gli attacchi di Israele, mente la Guida Suprema Ali Khamenei, riprendendo uno dei capisaldi della teologia sciita, celebrava la morte dei principali capi militari della Repubblica Islamica, già elevati al rango di Martiri da glorificare. Oltre a inibire completamente ogni futura capacità nucleare del Paese, le operazioni israeliane mirano a destrutturare i vertici militari di Teheran, esattamente come già messo in atto con Hamas prima e Hezbollah poi, solo ora su vasta scala, trattandosi di uno scontro tra Stati sovrani e non più un’azione condotta nell’ambito di un conflitto asimmetrico.
Qui risiede tutta la pericolosità dell’azione intrapresa nella notte di ieri da Netanyahu. A differenza delle seppur gravi due precedenti offensive del 2024, quando Israele informò l’Iran su quali sarebbero stati gli obiettivi, oggi si prospetta un’azione non dimostrativa, ma ben più strutturata, che potrebbe durare diversi giorni, durante i quali le forze aeree di Tel Aviv continueranno a colpire «con forza, ad un ritmo elevato, con lo scopo di raggiungere gli obiettivi che ci siamo prefissi», come ha dichiarato il Capo di Stato Maggiore Zamir. Un comunicato che rivela tutta la determinazione israeliana nel cercare di risolvere quella che propagandisticamente considera essere una minaccia vitale per la sua esistenza, visto che nell’ambito del paradosso delle dottrine nucleari, l’ordigno atomico è in sé un’arma di deterrenza e di garanzia di sopravvivenza, grazie all’equilibrio del terrore, fatta per non essere utilizzata, come la Guerra Fredda ha dimostrato.
Video shows flames and heavy smoke rising near Tehran’s Mehrabad Airport after Israel appeared to target the facility in an early morning attack. Iranian authorities say the airport and its runways are intact. pic.twitter.com/B57M7x8P4G
— Al Jazeera English (@AJEnglish) June 14, 2025
Un comunicato che lascia solo presupporre quali possano essere gli scopi prestabiliti, o meglio l’obiettivo primario, da conseguire mediante una strategia multidimensionale volta a neutralizzare in modo strutturale la minaccia iraniana, per raggiungere il quale sono necessari almeno quattro passaggi intermedi. Sicuramente, visto il numero di mezzi e sistemi impiegati, tra quelli prioritari v’è la distruzione della capacità nucleare, dato che i siti colpiti sono i principali impianti di arricchimento dell’uranio: Natanz, Fordow e Isfahan.
Consci che la risposta di Teheran stavolta non sarà meramente propagandistica, tesa ad evitare una potenziale escalation, come fu nel 2024, Israele cerca parallelamente di ridurre la capacità offensiva convenzionale dell’Iran, sia attraverso il danneggiamento selettivo delle infrastrutture missilistiche, dei radar e dei sistemi di difesa aerea, sia attraverso la cosiddetta «decapitazione strategica», volta all’eliminazione fisica dei vertici dei Guardiani della Rivoluzione, il vero nerbo della capacità militare iraniana, disarticolando la catena di comando e rallentando così la capacità di reazione.
A livello politico Netanyahu intende sfruttare il clima di tensione sociale presente nella Repubblica Islamica per minare la legittimità del regime, stimolando dinamiche di destabilizzazione dall’interno, dimenticando tuttavia il profondo senso nazionalista che caratterizza gli iraniani, capaci di fare fronte comune dinanzi a una minaccia esterna. Infine, si mira a erodere in modo irreversibile la capacità iraniana di sostenere le milizie alleate nella regione, interrompendo i canali logistici e produttivi degli armamenti. Il raggiungimento dei risultati auspicati configura una campagna prolungata, non limitata a un’azione puntuale, ma concepita come una pressione sistemica su più livelli, militare, tecnologico e politico, fino alla neutralizzazione della minaccia percepita. Il tutto, secondo Netanyahu, con l’aiuto di Dio.
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