Opinioni

Le tre scommesse di Tel Aviv e il cambio di linea degli Usa

Il piano di Netanyahu mira a colpire il programma nucleare e destabilizzare Teheran. Ma è una strategia che poggia su tre presupposti rischiosi
Un edificio colpito dagli attacchi aerei israeliani a nord di Teheran - Ansa © www.giornaledibrescia.it
Un edificio colpito dagli attacchi aerei israeliani a nord di Teheran - Ansa © www.giornaledibrescia.it
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La si attendeva, questa azione israeliana contro l’Iran. Ma non con queste forme e, anche, con la prospettiva annunciata da Netanyahu che essa continuerà per almeno due settimane. L’obiettivo è evidente anche se non è scontato che esso sia realistico: quello di riportare indietro di anni il programma nucleare iraniano decapitando al contempo la leadership militare e quella scientifica del Paese.

Con l’auspicio, contestuale, che questa ennesima umiliazione inflitta a Teheran possa destabilizzare il regime e facilitarne il crollo. Come spesso in questi casi, è possibile che nella scelta di Netanyahu abbiano inciso anche considerazioni di politica interna e la speranza che una guerra rapida e vittoriosa possa rafforzarne una posizione che rimane traballante.

Con questa decisione, il Primo Ministro israeliano fa tre scommesse. La prima è che l’Iran, grandemente indebolito nell’ultimo anno e mezzo e inferiore da un punto di vista militare, non disponga di una seria ed effettiva capacità di risposta. Che le sue capacità deterrenti o di rappresaglia siano state esagerate o comunque largamente ridotte dopo il 7 ottobre 2023.

La seconda scommessa è che l’amministrazione statunitense rimanga acquiescente, lasci carta bianca a Israele e sia anzi pronta a intervenire al suo fianco per difenderla o in risposta ad azioni iraniane contro bersagli americani. Spinto in tal senso anche dall’Arabia Saudita - impegnata da due anni in un tentativo di distensione con l’Iran - Trump sembrava aver modificato linea e avviato un nuovo dialogo con Teheran, al punto da essere criticato da falchi anti-iraniani come alcuni senatori e il suo ex consigliere per la Sicurezza nazionale, John Bolton. È però difficile immaginare che un attacco come questo non sia stato in una certa misura concordato con Washington. A maggior ragione se consideriamo il profondissimo livello d’integrazione militare e d’intelligence che esiste tra i due Paesi. Scopriremo (forse) col tempo se questo apparente cambio di linea degli Usa sia il frutto di una dialettica interna all’amministrazione e al Congresso, dove molti appoggiano Netanyahu, a partire dal Segretario di Stato, Marco Rubio.

La terza scommessa è che questa politica egemonica se non imperiale d’Israele non sia levatrice di disordine regionale, ma imponga anzi una forma di forzosa disciplina nella quale nessuno - nemmeno l’Arabia Saudita - osa contestare l’evidente primato israeliano, destinato a manifestarsi anche in una chiara espansione territoriale a Gaza, in Cisgiordania e nel sud del Libano.

Di scommesse però si tratta. Soprattutto l’ultima sarà presto testata, in Medio Oriente e non solo, che il rischio di azioni terroristiche torna a impennarsi. Israele punta sulla forza, e solo sulla forza estrema, come strumento di politica internazionale. Vìola per l’ennesima volta un diritto internazionale al quale ormai nessuno più crede. Rivendica e applica doppi standard che erodono ancor più quel poco che resta del multilateralismo e della governance globale (e che, come abbiamo visto con Putin, saranno poi utilizzati da altri per giustificare le proprie di violazioni delle norme). Promuove azioni di guerra che colpiscono inevitabilmente civili innocenti. E si ritrova forte, sì, ma sempre più isolato, anche negli stessi Stati Uniti, dove crescono le voci critiche nei suoi confronti e di fatto scompare lo storico sostegno bipartisan alla relazione speciale tra i due paesi. Un isolamento oggi orgogliosamente rivendicato, ma che alla lunga rischia di diventare controproducente se non insostenibile.

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