Onore e missili, il messaggio degli Houthi a Israele

La Jambiya, il tipico pugnale dalla lama ricurva della tradizione yemenita, è più di un’arma. È segno della cultura e della memoria preislamica della parte più meridionale della penisola arabica, che troverà presto diffusione nel Medio Oriente, nell’Africa settentrionale e in parte dell’Asia.
È espressione non solo di virilità, poiché segna il passaggio dall’adolescenza alla vita adulta, ma è soprattutto simbolo di onore, virtù e coraggio. Sentimenti alla base della promessa formulata dagli Houthi, gruppo di ribelli sciiti filoiraniani, di schierarsi apertamente contro lo Stato di Israele e dei suoi alleati, nella guerra contro Hamas. Con una determinazione, intraprendenza e da ieri, anche capacità offensiva a lungo sottovalutata, in grado di penetrare il sofisticatissimo sistema di difesa missilistica israeliano e di colpire l’aeroporto internazionale di Tel Aviv.
Un attacco dall’alta valenza simbolica che, al di là delle implicazioni di carattere militare, sottolinea l’inefficacia della campagna portata avanti da Netanyahu nell’ultimo anno e mezzo, volta ad eliminare le principali minacce dello Stato ebraico: a partire da Hamas nella Striscia di Gaza, ad Hezbollah nel nord del Libano, alle milizie sciite irachene.
Se inizialmente la strategia sembrava avesse avuto effetto, le recenti dimostrazioni di forza di Hamas, a partire dalla sprezzante teatralità della liberazione di alcuni ostaggi, e il recupero della propria base militante di Hezbollah, hanno dimostrato il suo parziale fallimento. L’agenda securitaria di Israele deve oggi affrontare almeno quattro vulnerabilità tattiche e due politico-strategiche di medio periodo.
Nell’immediato, oltre al partito sciita libanese rimane aperta la questione di Gaza, per la quale il Gabinetto di sicurezza israeliano ha approvato una nuova mobilitazione dei riservisti «per un periodo significativo», unitamente a un’offensiva allargata, la quale «potrebbe spingersi fino alla presa dell’intera enclave», comportando l’occupazione dei territori e lo spostamento della popolazione gazawi a sud.
US President Donald Trump said his goal in talks with Iran is the “total dismantlement” of the country’s nuclear program but added that he is open to hearing arguments for allowing Iran to pursue civilian nuclear energy. pic.twitter.com/FgxaoiKbaa
— Iran International English (@IranIntl_En) May 5, 2025
Se da un lato Netanyahu dichiara artatamente che tali azioni sarebbero volte a promuovere il piano del Presidente Trump, in realtà cancella ogni tentativo di risoluzione del conflitto fino ad ora discusso, ma sacrifica anche ogni speranza di liberazione degli ostaggi israeliani ancora nelle mani di Hamas. Mentre gli Houthi rilanciano la loro offensiva contro Israele, il fronte siriano resta altamente instabile. L’ascesa di Ahmad al-Shara’, figura compromessa da un passato jihadista e responsabile di violenze mirate contro alcune minoranze religiose, tra cui la comunità drusa, non offre alcuna garanzia di stabilità politica.
In tale quadro, Israele ha assunto un ruolo di protettore dichiarato di questa minoranza, come dimostra il recente attacco di avvertimento contro il palazzo presidenziale a Damasco. Il territorio siriano continua a essere parcellizzato e conteso, non solo da diverse milizie, ma è stretto nella morsa degli interessi di Israele a sud e quelli della Turchia a nord. È per questo che Netanyahu, forte del rapporto privilegiato con Aliyev, ha chiesto aiuto all’Azerbaijan per cercare una mediazione con Erdogan, segno dell’estrema difficoltà in cui oggi si trova Tel Aviv.
Il deterioramento delle relazioni con Ankara ha privato lo Stato ebraico di un alleato affidabile ai confini della regione araba e soprattutto iraniana e di un prezioso accesso allo spazio aereo turco, per un eventuale attacco in profondità verso l’Iraq o contro Teheran.
Ed è proprio l’Iran a rappresentare la seconda vulnerabilità politico-strategica. Sostenitore anche degli Houthi, Teheran è stato recentemente oggetto di minacce dirette da parte del Governo israeliano, che non hanno trovato concretizzazione in un’azione militare solo grazie a Donald Trump. La rimozione dalla carica di Consigliere per la Sicurezza Nazionale del falco Mike Waltz, favorevole come Netanyahu ad un intervento armato contro i siti iraniani è un chiaro messaggio volto a rassicurare Teheran della volontà di proseguire nel dialogo intavolato in Oman sulla questione del nucleare, ma anche verso Israele a non tentare azioni militari in autonomia.
In questo preciso momento è interesse di Washington cercare di mantenere quantomeno stabile la situazione sul campo, soprattutto alla luce del fatto che la settimana prossima sarà prevista la visita ufficiale del Presidente Usa in Qatar, negli Emirati Arabi Uniti e in Arabia Saudita. Una visita a Riyadh preannunciata da un contratto per la vendita di armamenti da 3,5 miliardi di dollari. Due i convitati di pietra, almeno per i temi che saranno trattati: Israele per la ridefinizione degli Accordi di Abramo; l’Iran per il progredire nei colloqui su un eventuale accordo sul nucleare e sulla proliferazione missilistica.
Tra i molti doni che riceverà Trump ci sarà sicuramente una spada, quale simbolo di rispetto e onore, per rafforzare quel legame politico e di protezione che perdura dal 1945. Se nel 2017 essa assunse il significato di alleanza strategica e coesione militare, volta a rafforzare il nuovo ordine regionale anti-iraniano, stavolta dovrà simboleggiare la forza del dialogo, fortemente voluto da Mohammad bin Salman per rimodellare l’intero Medio Oriente.
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