Le quattro guerre che sta combattendo Benyamin Netanyahu

L’immagine è tutto. Sa essere esplicativa, propagandistica, provocatoria. Così è stata funzionalmente usata da Hamas, quando ha trasformato l’adempimento di un punto essenziale della prima fase della tregua, la liberazione degli ostaggi israeliani, in un evento tragicamente teatrale, mediatico, volto a rimarcare che, nonostante oltre 500 giorni di guerra, la sua capacità militare e la forza esprimibile fosse ancora rilevante, così come il consenso a Gaza. Una tregua che fin da subito si è dimostrata provvisoria, fragile e sensibile anche alle più minime oscillazioni delle parti in causa, le quali, ritengono l’avversario responsabile dell’inosservanza dei patti.
Da un lato Hamas accusa Israele di aver violato l’accordo rinnegando l’impegno assunto di passare alla seconda fase e con un cessate il fuoco permanente; dall’altro il governo Netanyahu sostiene che il gruppo terroristico abbia violato il cessate il fuoco rifiutando il rilascio di nuovi ostaggi. Forte della risolutezza di Trump, che più volte ha minacciato di «scatenare l’inferno» qualora Hamas non avesse consegnato gli ultimi israeliani e dopo che il flusso di armi dagli Usa a Israele è ripreso, rimarcando così il sostegno dell’Amministrazione repubblicana alla linea intransigente tenuta da Tel Aviv, Netanyahu sembra aver ripreso una postura bellicista, contro i suoi tradizionali nemici, riassunti nella dottrina delle tre «H» (Hamas, Hezbollah, Houthi), cui se n’è aggiunta una quarta: quella di Hayat Tahrir al-Sham, dopo che ha preso il potere in Siria.
Oggi il premier israeliano sta combattendo quattro guerre. La prima, di usura, contro il Libano e la Siria. Dopo la caduta di Assad e la presa del potere di Hayat Tahrir, Israele ha rioccupato le alture del Golan e ha iniziato una serie di attacchi, distruggendo gli arsenali del regime per evitare che le armi potessero cadere nelle mani della nuova forza dominante, le cui origini e ideologia sono da ricercarsi in al-Qaeda, e pertanto jihadisti per Bibi. L’obiettivo è di arrivare alla demilitarizzazione completa della Siria meridionale, così da formare una grande area cuscinetto in grado di proteggere il territorio israeliano da eventuali attacchi missilistici o infiltrazioni terroristiche, specie del Jihad Islamico Palestinese, alleato di Hamas. Nonostante una tregua siglata a novembre col Libano, l’Idf conduce attacchi quasi quotidiani contro Hezbollah. Benché le sue capacità militari siano ai minimi termini, il partito sciita dispone ancora di ingenti risorse economiche, che utilizza per finanziare la ricostruzione delle abitazioni distrutte nelle aree che controlla. Alla fine di gennaio erano già stati distribuiti 400 milioni di dollari a 140.000 persone. Una politica assistenziale che mira a riconsolidare la propria base popolare. Ed è ciò che Israele teme.
La seconda guerra è verso Hamas. Un conflitto ideologico e politico. L’offensiva degli ultimi giorni è volta a impedire che Hamas possa tornare a governare Gaza e a ridimensionarne la forza militare, tanto ostentata nella teatralità dei video che documentavano la liberazione degli ostaggi. Da qui la necessità di proseguire nel conflitto. Inoltre Netanyahu ha bisogno del sostegno degli alleati di destra per ottenere voti cruciali nel Parlamento per mantenere il suo potere. Alleati che si sono sempre tenacemente opposti alla fine delle ostilità a Gaza. E qui si inserisce il terzo scenario: quello di una guerra interna, per le responsabilità. Il premier israeliano è sotto processo per corruzione e se fosse riconosciuto colpevole rischierebbe il carcere. La Corte ha approvato la sua richiesta di non presentarsi alla prima udienza per il conflitto, ma la spada di Damocle resta.
La fine delle ostilità lo condurrebbe al processo e all’esigenza di far luce sulle responsabilità della fallimento dell’intelligence del 7 ottobre. Sebbene il Comandante dello Shin Bet, il Servizio segreto interno, abbia ammesso di aver sottovalutato i rischi, un’inchiesta del Servizio ha accusato l’Ufficio del Primo Ministro di aver artatamente occultato o contraffatto alcuni documenti che indicavano di come l’Esercito avesse avvertito il governo dell’imminenza dell’attacco. La risposta? Il Comandante è stato licenziato, evidenziando una lotta intra-istituzionale. Un’ultima guerra, per delega, si gioca sulla distanza ed è contro gli Houti nello Yemen, che continuano a minacciare le navi e i cargo nel Mar Rosso. I ripetuti attacchi di aviazione Usa e israeliana sono da considerar un avvertimento all’Iran, loro alleato mai uscito dalle minacce di Israele e ora anche nelle mire di Trump. Un potenziale quinto scenario per Bibi.
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