Opinioni

Italia protagonista nelle trattative col regime iraniano

Merito anche dei nostri buoni rapporti con gli Stati Uniti di Donald Trump
Una donna passeggia per le vie di Teheran - Foto Epa/Abedin Taherkenareh © www.giornaledibrescia.it
Una donna passeggia per le vie di Teheran - Foto Epa/Abedin Taherkenareh © www.giornaledibrescia.it
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La residenza dell’ambasciatore d’Italia a Teheran è una villa qajara del XIX secolo che si trova nella parte settentrionale della capitale iraniana. È nei suoi magnifici giardini che rispecchiano il gusto e le regole sociali del tempo che, qualche anno fa, ebbi modo di conversare con un Ayatollah, il quale convintamente sosteneva che noi italiani fossimo «degni» di interloquire con i persiani grazie ad un comune retaggio storico-culturale millenario, dato per noi dall’Impero romano, per gli iraniani prima dagli Achemenidi e poi dai Sasanidi.

Le relazioni tra i due paesi sono sempre state profonde e intense, improntate sul rispetto e la stima reciproci, forse proprio per la ricchezza culturale che dal passato, ancora oggi è in grado di irradiarne i benefici. Forse è anche per questo motivo che gli iraniani hanno accettato Roma quale seconda tappa di un lungo e complicatissimo percorso del dialogo sul nucleare con gli Usa. Un dialogo che aveva condotto all’accordo sul nucleare, segnando uno dei pochi successi di politica estera dell’Amministrazione Obama, subito cancellato unilateralmente dal suo successore, Donald Trump, deciso a favorire più i sauditi e gli israeliani che proseguire nella stabilizzazione del Medio Oriente.

Adesso è proprio Riyadh che, per tutelare i propri investimenti volti a riconvertire l’economia del paese, necessita di stabilità regionale, la quale passa inevitabilmente anche per Teheran. Lo dimostra lo scenario stesso del Golfo Persico, divenuto teatro privilegiato dei colloqui di pace per i due principali conflitti contemporanei, quello tra Russia e Ucraina e tra Israele e Hamas, per i quali Trump, in campagna elettorale, aveva promesso una rapidissima risoluzione. Che non c’è stata. Ora potrebbe trovare nell’Iran un attore altrettanto ostico, poco incline al dialogo, soprattutto dopo che ha «invitato» Khamenei a sedersi al tavolo delle trattative minacciando, in caso contrario, l’intervento militare. Un atteggiamento da «bullo», come è stato subito derubricato dalla Guida Suprema, che sottolinea non solo la diversità di approcci, ma soprattutto la distanza culturale tra i due paesi.

Ecco dunque che, grazie anche al rapporto privilegiato costruito dalla premier Meloni con l’amministrazione Usa, con il caso Cecilia Sala ben gestito che da crisi politica si è trasformato in successo diplomatico, soddisfacendo tutte le parti in causa, Roma può rappresentare, con il Golfo, il secondo asse attorno a cui iniziare le prove di un dialogo costruttivo, che auspicabilmente dovrebbe condurre ad un rientro a pieno titolo dell’Iran nell’agone internazionale, non più gravato dalle sanzioni, con garanzie di limitazioni del suo piano nucleare.

Nel più ampio contesto della sicurezza regionale, l’Iran potrebbe giocare un ruolo chiave, soprattutto nei confronti di alcune vulnerabilità geopolitiche rappresentate, oltre a Gaza, dal Libano e dalla Siria, paesi lungi dall’essere pacificati e con milizie sciite, filo-iraniane o comunque dipendenti dagli aiuti economico-militari di Teheran che ancora operano attivamente. La dichiarazione «politica» di un eventuale disimpegno iraniano su questi scenari, che da un punto di vista pratico è già in parte conclamato vista la perdita di influenza e l’ormai scarsa presenza sul territorio dei Guardiani della Rivoluzione, ma soprattutto la promessa di un disimpegno, in cambio di un rinnovato accordo sul nucleare, darebbe non solo ossigeno all’economia nazionale, la cui crescita si mantiene sotto la media regionale e che vede per il 2025 una ripresa delle pressioni inflazionistiche, ma contribuirebbe alla costruzione di una nuova architettura di sicurezza nell’area.

A Muscat, in Oman, Iran e Stati Uniti sono tornati a confrontarsi sul nucleare - Foto Epa/Abedin Taherkenareh © www.giornaledibrescia.it
A Muscat, in Oman, Iran e Stati Uniti sono tornati a confrontarsi sul nucleare - Foto Epa/Abedin Taherkenareh © www.giornaledibrescia.it

Le parti necessitano però di un accordo completamente nuovo rispetto a quello del 2015. Diversi sono stati i progressi fatti dall’Iran negli ultimi dieci anni nel settore della ricerca nucleare e un mero ritorno a quei termini non darebbe le necessarie garanzie pretese da Washington. Molti anche i nodi politici da sciogliere, veri intralci alla successiva questione tecnica. Innanzitutto è necessario evitare che il nuovo accordo possa essere percepito dagli iraniani come una capitolazione. Anche alla luce dei due recenti scontri diretti con Israele, l’Iran non sarà mai disposto a indebolire i suoi mezzi di deterrenza convenzionale, in particolare il suo programma di missili balistici, poiché non sarebbe in grado di competere con le altre potenze regionali, che hanno accesso alle armi occidentali più sofisticate.

Poi, oltre alla diffidenza decennale tra Washington e la Repubblica Islamica, sarà necessario superare l’intransigenza di Netanyahu, ormai alla fine del suo percorso e da parte iraniana lo scetticismo dell’élite religiosa ultraconservatrice e dei Pasdaran verso un’America che nella storia recente ha più volte violato gli accordi presi. Il ruolo dell’Italia è di ricucire quelle lacerazioni, dirimere incomprensioni che hanno caratterizzato le relazioni internazionali tra l’Occidente e l’Iran, paese dal peso politico rilevante e anche grande potenziale mercato economico e commerciale. E soprattutto paese di grande cultura.

Riproduzione riservata © Giornale di Brescia

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