Opinioni

Nella mediazione la volontà ferma e ostinata di costruire nuove storie

Siamo tutti fratelli, tutti uguali, tutti fragili, tutti membri di un unica grande famiglia, parola che anagrammata diventa: «ama figli»
Una famiglia che condivide del tempo insieme
Una famiglia che condivide del tempo insieme
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So già come li troverò, non si scappa da questo: saranno distantissimi fra loro (fisicamente ed emotivamente), nervosi, tesi, trattenuti, sofferenti. Eviteranno di guardarsi, cercheranno il mio sguardo come si cerca un faro nella notte, un’accorata richiesta in un occhio e la paura di un nuovo fallimento nell’altro. Si appenderanno ad un mio sorriso per un’iniezione di speranza. Forse l’hanno persa da tempo ma sono lo stesso qui, a girare l’ultima carta del mazzo delle possibilità e da questo partiremo.

Sono tutti uguali, smarriti, come le cause della frattura, nate da improvvisi cortocircuiti nella cura reciproca, nella parola, nell’attenzione, dall’assenza improvvisa di reciprocità dovuta ad una stanchezza senza nome. Alcuni arrivano rabbiosi, determinati a tenere il punto, pensano di giocare a scacchi anche con il mediatore, hanno studiato la partita nei minimi particolari, spesso sono quelli che crollano per primi, annientati dallo stupore per le emozioni inaspettate che erutteranno dalla loro anima, finalmente.

È commovente entrare, in punta di piedi e delicatamente, nelle storie degli altri, lasciarli srotolare l’album della loro vita, improvvisamente importante per qualcuno, proprio ora che tutto sembra scombinato dal dolore e dalla rottura. Incontrare questa stanchezza e questa fatica, che non è dissimile dalle nostre, è la parte più rilevante del nostro lavoro di «costruttori di ponti», ponti comunicativi. È tenere nelle mani le ingarbugliate matasse del dolore e cercare di districarle, lentamente, poggiandole nell’arcolaio di un tempo sospeso e fertile, per farne qualcosa di nuovo e di caldo che li protegga e protegga i loro figli, se ce ne sono, dal gelo del disamore o della rabbia, sceso, improvvisamente a creare muri di ghiaccio trasparente nella loro stessa casa. È tutta qui la mediazione familiare. Inutile dire altro.

Ho la mia valigetta e non so perché me la porto appresso come fossi un medico, che tanto quello che serve è dentro di me, nell’occhio che vede, anche il non detto, nell’orecchio che ascolta, anche le omissioni e i silenzi, nel cuore che accoglie le emozioni senza riserve, senza giudizio, senza retropensieri, pregiudizi, con animo puro e cristallino come il compito di un antico custode. Più li saprò ascoltare, più quelle emozioni, anche quelle umbratili e brutte, andranno ad iscriversi nella mia storia personale, più avremo possibilità di andare lontano, insieme. Nella stanza la rabbia ha un perché, una storia. I loro figli, che li amano, a prescindere e che li attendono a casa, ci guardano dalle foto prescelte e messe nella cornice, sorridono sempre, da un tempo che sembra irrimediabilmente perduto, lungo il cammino della vita, ma che è solo un inciampo, una ferita che chiede una cura per accedere ad una della tante inevitabili trasformazioni dei nostri destini.

L’etimo di destino, dalla radice di un verbo latino, ci parla di: «volontà ferma ed ostinata». E, sì, siamo ostinati costruttori di nuove storie, creiamo metamorfosi e mai come nella stanza di mediazione risulta evidente che siamo tutti fratelli, tutti uguali, tutti fragili, tutti membri di un unica grande famiglia, parola che anagrammata diventa: «ama figli». Straordinaria magia, quella delle parole, quando, come la vita, si ricompongono dentro nuovi significati.

Riproduzione riservata © Giornale di Brescia

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