Comunicare per sciogliere una matassa che altrimenti si aggroviglia

«Si parleranno i nostri avvocati». «Parlo io con l’avvocato di suo marito/moglie». «Non parli e non scriva niente, mi raccomando». Ecco com'è che, a volte, sulla coppia in separazione, improvvisamente, scende il silenzio.
Un silenzio forzato, strategico, per nulla spontaneo, pieno di ombre minacciose. Un silenzio apparente, soffocato, dentro al quale alberga e brulica quel mondo sommerso, incontrollabile, di pensieri, schemi mentali, paradigmi personali, giudizi, sfiducia, rabbia, rancore, dolore, delusione, senso di fallimento (e molto altro) che costituiscono il magma del conflitto separativo.
Un magma che non troverà sbocco nelle stanze dei tribunali. È un silenzio nuovo, che è tutto fuorché improvvisa incapacità di parlare o assenza di argomenti. Una volta assunte le difese di un cliente, l'avvocato ne deve diventare il confessore, il protettore ed è giusto così.
Le strategie richiedono attenzione, il terreno diventa minato. Qualsiasi piccolo inciampo potrebbe compromettere le prove e l'esito della battaglia. Fatti, difese, atti, prove, quegli «alligata et probata», sui quali il giudice, unicamente, può e deve decidere (dal latino caedere «tagliar via»).
I difensori si sostituiscono nel dialogo nell’intento di evitare danni ulteriori al caso cui stanno cercando di dare un epilogo netto (come un’amputazione) richiesto alla e dalla legge (sappiamo, però, non si perde la sensazione del cd. arto fantasma).
In questo silenzio tumultuoso la coppia finisce per confrontarsi con chiunque tranne che con il diretto interessato. L’altro assume forme deviate dalla rabbia crescente. Ci si focalizza su eventi che, magari, sono solo l’apice di questioni irrisolte come echi da molto, molto, lontano.
Bloccare la comunicazione ingigantisce e distorce tutto rendendo le relazioni sempre più perturbate nonostante i carteggi, a botta e risposta, dei difensori. È come una matassa che si aggroviglia sempre più rendendo poi, oltremodo difficile, e complicato districarla, men che meno tramite il diritto che, non potendo restare che nell'alveo dell' «iura novit curia, facta sunt probanda» (il giudice sa il diritto e i fatti vanno provati), non può dar voce alle emozioni e ai bisogni.
La mediazione familiare è invece proprio questo: dar voce. Dar spazio a quelle parole, ai quei pensieri e a quegli sguardi, improvvisamente impediti (come se in conseguenza del conflitto la coppia perdesse la capacità di autodeterminarsi e parlarsi).
La voce è il più importante strumento per guarire ferite, creare nuove connessioni, andare alla radici dei problemi per condurre oltre, oltre le apparenze, per dissipare la nebbia mentale giungendo a dialogare con un IO interiore adulto, che si pone fuori dai rigidi binari del: bianco-nero, vincitore-vinto, ragione-torto, prove-controprove, errori ed espiazioni.
Voce e poi, anche e soprattutto, ascolto. Ascolto attivo e non giudicante. È spazio: confidenziale e segreto. È musica. Suoni. Quelli del mediatore che accompagna, guida, rassicura e protegge e quelli dei mediandi, che in un tempo e uno spazio a loro soltanto, dedicato, finalmente scoperchiano il tema natale della loro storia d’amore e del suo epilogo, proiettandola e proiettandosi, in un futuro fatto di possibilità e non solo di perdita.
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