Le tasse e le colpe di chi evade il «pizzo di Stato»

Si possono dare molte interpretazioni, e assai diverse, alle dimissioni del direttore dell’Agenzia delle Entrate Ernesto Maria Ruffini
Ernesto Maria Ruffini - Foto Ansa © www.giornaledibrescia.it
Ernesto Maria Ruffini - Foto Ansa © www.giornaledibrescia.it
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Si possono dare molte interpretazioni, e assai diverse, alle dimissioni del direttore dell’Agenzia delle Entrate un anno prima della scadenza del mandato. Ernesto Maria Ruffini se ne va perché si prepara a diventare il federatore di un centro politico che vorrebbe sfuggire alla logica dei galli che si beccano ogni giorno.

Oppure lascia perché non è possibile essere manager di governo e oppositore della linea che lo stesso governo persegue. Oppure - pensando più perfidamente - perché mentre Giorgia Meloni sembra tentata di minacciare un ricorso alle urne anticipate per mettere in riga i galli del suo pollaio, non si può lasciar passare che un tecnico di prestigio guadagni visibilità. L’ombra di un nuovo Monti o di un Draghi è sempre dietro l’angolo.

Infine, più semplicemente, perché Ruffini non vuol restare nel tritacarne della polemica e quindi non «scende in campo», ma «scende e basta». Per come è nata, la questione, ogni versione ha una sua ragione.

Il tutto ha preso avvio qualche giorno fa, quando Ernesto Maria Ruffini è intervenuto ad un convegno all’università Lums di Roma. Per quel che ha detto e per come lo ha detto, non pochi hanno pensato che il suo discorso entrasse pienamente nel dibattito sull’impegno politico dei cattolici-democratici, sull’eventuale centro che tratta con la sinistra in alternativa all’attuale maggioranza. Ruffini ha espressamente detto che bisogna lasciar perdere con le «nomination da talent show».

E subito si sono rincorse le reazioni di Matteo Renzi e Carlo Calenda, Romano Prodi e Beppe Sala. Accompagnate dalle reazioni opposte e risentite del centrodestra e in particolare di Maurizio Gasparri e Matteo Salvini che ne hanno chiesto a gran voce le dimissioni.

Ruffini non è nuovo a dire la propria opinione in maniera diretta, su temi sociali e politici. Rivendica un diritto di parola che va oltre il suo ruolo. È convinto - giustamente, verrebbe da dire - che l’Agenzia delle Entrate stia sopra le parti, abbia il compito di servire lo Stato indipendentemente da chi va al governo, e il suo direttore sia vincolato al duplice dovere di rispettare le leggi e il suo mandato. Vista la polemica montante e i toni che ha preso, Ruffini si chiede: parlare di bene comune è una scelta di campo? Combattere l’evasione è una scelta di parte? Mai - dice - si sarebbe aspettato che quelli dell’Agenzia delle Entrate fossero additati come gli estorsori del «pizzo di Stato» o che tenessero «in ostaggio le famiglie». Per concludere d’aver sempre pensato che a danneggiare i cittadini onesti siano gli evasori.

Ed eccolo il punto della questione. Ruffini è (stato) il direttore dell’Agenzia che maggiormente ha cercato di rinnovare il sistema fiscale, facendo leva sulle grandi potenzialità della tecnologia. Attingere a banche dati, metterle in connessione, semplificare i passaggi burocratici: questi gli strumenti che Ruffini ha messo in campo. Ma a riconoscerglielo oggi sono in pochi, quasi solo Confindustria. Non è (stato) certamente facile per lui percorrere questa strada mentre si snocciolavano condoni e perdoni. La «lealtà fiscale», come viene definita in altri Paesi, in Italia è un concetto quasi sconosciuto. L’elusione e l’evasione fiscale, invece, sono tanto acclarate che vengono persino quantificate: fra gli 82 e gli 85 miliardi di euro nel 2021, addirittura oltre i cento miliardi nel 2019. Novanta miliardi è la stima attuale.

L’idea che il fisco sia un nemico è assai radicata. Quanto affermato dall’articolo 53 della Costituzione, e che cioè «tutti sono tenuti a concorrere alle spese pubbliche in ragione della loro capacità contributiva», si ritiene sia poco più d’una buona intenzione, uno di quei principi che è bello dire ma quasi impossibile realizzare.

Qualcuno la contesta radicalmente a preferirebbe una tassa piatta (e bassa) uguale per tutti. I politici giocano su questo sentimento. Silvio Berlusconi e il suo superministro Giulio Tremonti parlavano di Stato che «mette le mani nelle tasche degli italiani», promettendo che loro non lo avrebbero mai fatto, anche se poi la pressione del fisco non è calata. Giorgia Meloni ha parlato addirittura di «pizzo di Stato». Non l’ha fatto per caso: era a Catania, in campagna elettorale. Si sostiene esplicitamente che il fisco sia oppressivo e opprimente. Di chi la colpa? Quante meno imposte pagheremmo (quelli che pagano) se l’evasione venisse davvero perseguita? Difficile dare torto a Ruffini: gli evasori sono i nemici degli onesti. Altrettanto diffusa è l’idea che si paghino troppe tasse perché ci sono troppi sprechi.

E anche in questo caso ha ragione Ruffini: è la politica, non l’Agenzia delle Entrate, a decidere dove e come spendere le risorse raccolte, così come è la politica, e non l’Agenzia, a stabilire il livello della tassazione. A meno che si voglia sostenere che non servono risorse per sanità e ospedali, scuola e ricerca, natalità e crescita, servizi e assistenza. O per pagare il debito pubblico che intanto è cresciuto.

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