Le imprese sostenibili e la bolla «dotcom»

Ginevra, 6 agosto 1991. Il cielo estivo è tinteggiato da grandi nuvole bianche che si muovono rapidamente nel blu, sospinte da una tiepida brezza. Un uomo con una camicia a righe e giacca chiara si dirige con spasso spedito verso un edificio.
Apre la porta: sulla vetrata campeggia l’acronimo CERN. Percorre un lungo corridoio, apre una porta di legno e si siede ad una scrivania. Pigia con insistenza alcuni tasti di un computer nero NeXT. Sul computer si legge una scritta in rosso: «Questa macchina è un server. Non spegnarla!». Tim Berners-Lee è un informatico britannico, inventore del World Wide Web (www). Ed oggi sta nascendo il primo sito web della storia. Il suo indirizzo è info.cern.ch., ed è appena stato messo online dal CERN. Sono stati necessari 17 giorni affinché la pagina venisse visitata da un primo utente esterno.
Internet formalmente era nata molto prima: dopo il lancio dello Sputnik sovietico del 1957, gli Stati Uniti iniziarono a finanziare con soldi pubblici il progetto ARPANET che, di fatto, creò la rete internet a partire dalle Università della California (UCLA) e di Stanford. Il mercato si sviluppò in maniera esponenziale quando il 9 agosto 1995 il più famoso browser di quel periodo, Netscape, si quotò in borsa per cercare di contrastare l’ingresso nel mercato di un nuovo browser creato da Microsoft: Explorer. La storia poi la sappiamo: l’enorme potere monopolistico della società di Bill Gates ebbe il sopravvento. In ogni caso, da quel 9 agosto 1995 il mercato finanziario si innamorò di tutte le società denominate «dotcom»: tutte quelle imprese, quasi sempre startup, che volevano sviluppare un nuovo business, utilizzando internet e il «www».
Il mercato finanziario iniziò a scommettere sui potenziali profitti che queste nuove aziende avrebbero creato. Le teorie delle reti vennero insegnate nelle Università: internet avrebbe ridotto i costi di transazione, facilitando gli scambi di comunicazione ed aumentando i profitti. Si sviluppò una bolla finanziaria che terminò nel 2001, quando il mercato si accorse di aver preso un abbaglio perché molte imprese, di fatto, non avevano fondamentali solidi: si era scommesso su aziende che si erano fortemente indebitate per sviluppare nuovi business che risultarono in seguito poco profittevoli. Le quotazioni di borsa crollarono e rimasero a lungo basse. La crescita aveva beneficiato indiscriminatamente «buone» e «cattive» imprese; così pure fece lo scoppio della bolla: le imprese meno solide fallirono, quelle solide finirono sott’acqua….però fino ad un certo punto.
Perché parliamo della bolla «dotcom» in un articolo che dovrebbe occuparsi di investimenti Ambientali, Sociali e di Governance, i cosiddetti ESG? Perché ci sono alcune dinamiche assimilabili: anche in questo caso esiste un paradigma nuovo su cui il mercato finanziario ha scommesso. Il rischio del cambiamento climatico e la necessità di uno sviluppo sostenibile, ha portato alcuni governi a sviluppare politiche per la transizione energetica, che, di fatto, rendono potenzialmente profittevoli le imprese che adottano criteri ESG.
In realtà l’adozione di investimenti green è potenzialmente vantaggiosa di per sé, perché riduce i rischi per l’azienda, sia relativi al clima o all’ambiente, sia relativi al rischio istituzionale, derivante da un incremento delle tasse sul carbonio o sanzioni assimilabili. Infatti se una impresa investe per rendere più efficiente il suo sistema di produzione, riducendo l’energia utilizzata e l’anidride carbonica prodotta, nel breve periodo vengono sostenuti dei costi che si ripagheranno nel lungo periodo, in presenza di un incremento dei prezzi dell’energia e dei permessi di emissione.
Le imprese sostenibili pertanto incorporano un potenziale valore che i mercati tendono a riconoscere, aumentandone il valore ed incrementando i fondi ESG. Tuttavia esistono alcuni problemi che è opportuno riconoscere e su cui si discute ciclicamente. In prima battuta i sistemi di valutazione e definizione degli investimenti ESG non sono univoci, ma esiste una certa eterogeneità, soprattutto per la parte S (Social) e G (Governance). Nel dibattito si suggerisce pertanto di separare le tre aree (E, S e G), concentrandosi su pochi indicatori, soprattutto nell’ambito E (Environmental) che tende ad avere metriche più standardizzate, come per esempio le emissioni di CO2. Un problema evidente è anche ascrivibile al cosiddetto «greenwashing»: nella fase in cui il mercato scommette su un paradigma, come nella bolla delle «dotcom», anche imprese «cattive», cioè non-ESG, beneficiano dello status di imprese «buone» ed il loro valore aumenta. Il problema è altresì acuito dal proliferare di nuove imprese di consulenza che certificano lo status ESG e che talvolta non hanno competenze ben consolidate.
C’è un ulteriore elemento da tenere in considerazione, di tipo strutturale: il rischio ambientale è tipicamente di lungo periodo. I mercati finanziari ragionano invece nel breve-medio periodo, rispondendo sovente in maniera emotiva alle notizie: così il risultato di una elezione, l’introduzione di una politica o di una nuova tecnologia oppure eventi di geopolitica, possono deviare e modificare l’andamento degli indici anche in maniera marcata, togliendo risorse ad investimenti utili per ridurre rischi di lungo.
Quali le soluzioni? Da un lato serve l’intervento dei policy maker per rendere la crescita green appetibile in maniera costante per mercati ed imprese. Dall’altro le aziende devono investire seriamente in ESG evitando greenwashing, con certificazioni basate su competenze consolidate. La storia ci racconta che dopo lo scoppio della bolla «dotcom» le aziende più solide riuscirono a riemergere superando la crisi. Così si sono sviluppate Amazon, Alphabet (Google), Facebook, etc, mentre Microsoft ed Apple hanno recuperato il valore perso.
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