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Fast fashion e greenwashing, se le etichette raccontano «una piccola parte della verità»

Per il rapporto stilato da Greenpeace nel 2023 «solamente l’1% dei nuovi vestiti deriva da abiti vecchi». Le responsabilità della «moda veloce»
Una montagna di vestiti usati e abbandonati - © www.giornaledibrescia.it
Una montagna di vestiti usati e abbandonati - © www.giornaledibrescia.it
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Industria della moda e sostenibilità: un report di Greenpeace mette in guardia non solo dai rischi ambientali collegati alla «fast fashion», la «moda veloce» usa e getta, ma anche da quelle strategie di marketing ingannevoli con cui, a dire dell’organizzazione ambientalista, molti marchi presenterebbero come «green» una produzione carente sotto diversi parametri di sostenibilità.

Un esempio questo che spiega perfettamente il termine «greenwashing, sostiene la ricerca Greenwash fashion danger zone (tradotta col titolo «Pericolo greenwashing nel settore moda. Con le etichette i marchi nascondono l’insostenibilità del fast fashion») e pubblicata nella primavera 2023.

Linguaggio

Sotto la lente di Greenpeace, infatti, c’è il linguaggio usato nelle etichette: slogan o scritte che rimandano alla sostenibilità ma che nasconderebbero pratiche non sempre sostenibili. Il report analizza le iniziative di marketing di diverse aziende, tra cui le 29 (comprese Zara, Benetton e H&M) aderenti alla sua campagna «Detox» contro l’uso di sostanze chimiche nocive nell’industria della moda.

Ne emerge, oltre al fatto che il bollino verde per le pratiche corrette lo abbiano ottenuto solo le realtà Coop Naturaline e Vaude green shpae, come molti dei proclami di sostenibilità auto-prodotti dai marchi di moda siano spesso fuorvianti: ne è un esempio l’ampio ricorso alla parola «circolarità» per rimandare il consumatore alla rassicurante immagine del riciclo. Se si guarda al microscopio il ciclo produttivo, infatti, si scopre come ad oggi in realtà solo il 3% dei vestiti siano realizzati utilizzando materiali riciclati: anche qui però ad essere riutilizzati, per la maggior parte, non sono vecchi vestiti ma plastica proveniente da bottiglie usate.

Una pratica, scrive il report, che «esonera l’industria della plastica dalle proprie responsabilità e non mette in atto il riciclo realmente necessario», quello degli abiti usati. Oggi quindi soltanto meno dell’1% dei vestiti è prodotto con vecchi tessuti, mentre il volume della produzione di abbigliamento continua a crescere del 2,7% all’anno, sulla spinta del fast fashion, che seguendo le tendenze del momento produce abiti a basso costo destinati a vita sempre più breve.

Marketing

Ma ci sono altri tratti comuni rilevati da Greenpeace nel marketing dei marchi esaminati. In primis il fatto che ciò che sulle etichette è certificato come green è spesso frutto di campagne di sostenibilità interne all’azienda: da qui il report lamenta la mancanza di controlli di terze parti, ma anche l’assenza di meccanismi di tracciabilità delle filiere. I riferimenti alla circolarità, poi, spesso sono veri solo per metà: i materiali riutilizzati o vengono da altri settori industriali oppure sono soltanto di poco più ecologici delle fibre vergini o convenzionali.

Molti marchi, inoltre, nominano nelle proprie etichette soltanto un aspetto eco-friendly della propria produzione o presentano positivamente, perché risultati di riciclo, il ricorso a mix di fibre senza dire però che tali fibre miste non possono più essere a loro volta riciclate. Il report si chiude con l’invito a una maggiore trasparenza e a una circolarità reale, il più lontano possibile dalla moda usa e getta del fast fashion: «allungare il ciclo di vita degli abiti – si legge – deve essere la priorità del settore», per il quale si auspica anche l’intervento dell’Unione europea in materia di controllo sulle pratiche di «greenwashing».

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