Opinioni

L’ascolto dell’altro può salvare una vita

Connessi col mondo e isolati dai cari. Quante volte capita? Quante volte abbiamo, appollaiato accanto alle posate sulla mensa di casa, il telefono?
Saper cogliere l'altro con uno sguardo: una attitudine umana da tenere allenata - foto unsplash.com
Saper cogliere l'altro con uno sguardo: una attitudine umana da tenere allenata - foto unsplash.com
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Cosa hanno in comune due fatti di cronaca agghiaccianti come quello della giovane madre che sopprime e seppellisce i figli e quello del giovane quindicenne che si suicida travolto dall’onda dei bulli?

In entrambi i fatti c’è qualcosa di innaturale, e di conseguenza anche inquietante. Perché non è normale che una madre non accolga un figlio che ha portato in grembo e sentito crescere, cellula dopo cellula, dentro di sé. Così come non è normale che un giovanissimo non trovi negli amici quel rifugio divertente e spensierato, e che ci trovi invece aguzzini pronti a maltrattarlo portandolo ad abbandonare il bene più prezioso: la speranza nel domani, e quindi la vita.

Proviamo a chiederci se vi sia un denominatore comune tra la storia di una mamma che non una, ma due volte riesce a nascondere una gravidanza e quella di un ragazzo che drammaticamente dice basta alla sua esistenza. Ciò che è mancato, probabilmente, è lo sguardo.

Il rivolgere gli occhi alla loro vita e alla loro sofferenza. Perché, che essi fossero vittime o carnefici, è evidente che una cicatrice profonda covasse nel loro cuore. Ma nessuno si è accorto di loro. Nessuno dei bulli ha guardato in faccia quel ragazzo, nessuno ha scorto forse gli occhi rossi di lacrime, o almeno lo sguardo perso nella solitudine della sofferenza in cerca di qualche complicità che non ha trovato. Nessuno probabilmente ha colto i segni della gravidanza nella giovane, quelle movenze impercettibili, quelle mani poste istintivamente sul ventre, gli occhi splendidamente lucidi, una lieve lentezza nei movimenti. Tutti quegli indizi che portano a dire, con un sorriso, che «quella aspetta un bambino», e magari a rivolgerle un sorriso che le fa sentire il calore della vita che porta.

Invece no, le loro storie si sono srotolate nell’indifferenza di sguardi rivolti altrove.

Ecco chi dovrebbe salire sul banco degli imputati: il nostro sguardo. Sempre frettoloso e distratto. Sempre incollato al cellulare, capace di dedicare solo briciole di attenzione a chi ci sta di fronte, perché una notifica è sempre in grado di rapirci, quale che sia l’importanza del discorso che stiamo ascoltando. Un beep, una vibrazione e noi voliamo altrove.

Abbiamo perso l’abitudine di guardare. Non servono che cinque secondi di tempo, alla cassa del supermercato o alla fermata del bus, per dimenticare lo splendido mondo che ci circonda e incollarci allo schermo. Certo, è bellissimo: ci proietta nel mondo. Ma ci fa perdere chi abbiamo davanti agli occhi. Non lo si può negare.

E capita allora che poco per volta si perda - anche in famiglia - l’abitudine di guardarsi, e di ascoltarsi. Connessi col mondo e isolati dai cari. Quante volte capita? Quante volte abbiamo, appollaiato accanto alle posate sulla mensa di casa, il telefono?

Non è il caso di dare tutte le colpe a quel parallelepipedo di metallo, vetro e silicio. Ma dobbiamo ammettere che, forse, non siamo in grado di dominarlo. Con tante conseguenze, come appunto quella di aver perso l’abitudine di guardare, ascoltare, e quindi capire l’altro. Papa Francesco ha scritto nella sua autobiografia, «ascoltare l’altro è un po’ fermarsi nella sua vita, nel suo cuore, e non passare oltre».

Ecco, chiediamoci cosa sarebbe cambiato nelle vite di queste persone se qualcuno, con lo sguardo, si fosse - appunto - fermato nella loro vita. Ma no, non è successo. E ora possiamo solo piangere.

Piangere e imparare. Imparare che una persona vale uno sguardo. Che vale un ascolto. Che dire «un attimo» col telefono in mano e gli occhi bassi vuol dire «non sei importante». Vuol dire non essere qui mentre qualcuno ci parla, ma - appunto - altrove.

E altrove si perde il contatto con la realtà. Come lo hanno perso probabilmente i ragazzi che poco per volta hanno soppresso il giovane. A loro un consiglio. Piccolo ma importante: quando il branco, di persona oppure online, si scaglia su uno solo si attiva un effetto che viene chiamato Lucifero. Si perde il senso di essere uno, e ci si muove come un’onda, tutti insieme contro la vittima di turno. Non sono Luca, Francesco e Monica (nomi scelti a caso, sia chiaro) a scagliarsi con offese contro il malcapitato coetaneo. No, è il gruppo, come se fosse un solo indistinto e potentissimo corpo, a vessare la vittima. E ci si adegua agli altri. Poco per volta si annacqua anche l’impressione del male che si sta facendo. Che pure è tantissimo, lo abbiamo visto.

Ma questo effetto ha un nemico. Il coraggio. Quello di chi osa alzare la mano e dire «ragazzi ma cosa stiamo facendo?» Quello di chi osa farlo col rischio di diventare la nuova vittima. Quel coraggio che ha però una potenza enorme: quella di indurre il gruppo a fermarsi, e se va bene a capire che l’errore è enorme. E spesso, come è stato osservato, ha la forza di disgregare l’onda d’urto del gruppo.

Ma quel gesto non viene da solo. Non è un’ispirazione improvvisa. No. Quel gesto ha bisogno di uno sguardo.

Riproduzione riservata © Giornale di Brescia

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