Curare, l’arte di crescere insieme

«È un tenere insieme il “Bene e Male”, nonostante non si riconosca mai abbastanza che esistono e ci appartengono a prescindere dalla nostra volontà di eliminazione del lato negativo della vita»
«Esserci» è uno stare al mondo insieme - Foto/Unsplash
«Esserci» è uno stare al mondo insieme - Foto/Unsplash
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Il verbo «curare» indica un agire necessario perché vi possa essere una relazione e la si possa mantenere. Il filosofo Martin Heidegger lo sosteneva quando diceva che «esserci» è uno stare al mondo insieme, un «coesistere» con gli altri in una relazione. Proprio la co-esistenza richiede l’atto della cura, che è presenza attenta e partecipata. Non si può crescere da soli, ma solamente con la cura di un altro e il curare vuol dire saper coniugare realtà diverse che appartengono all’IO e al TU e al, contempo, è «insegnare» (nel senso di fare segno e indicare) come ci si occupa dell’altro.

La cura così, è la qualità dello stare insieme che dice quanto siamo presenti oppure mancanti dello sguardo per l’altro. Un termine antico, profondo, resistente al tempo le cui testimonianze e i significati risalgono a ventiquattro secoli fa dove la cura già era «interessamento e partecipazione». Ora è anche riguardo, attenzione, prevenzione, e non solo intervento che guarisce il male.

Semmai lo previene o quanto meno il «curare» può voler dire anche «mediare» tra gli opposti, che è un tenere insieme il «Bene e Male», nonostante non si riconosca mai abbastanza che esistono e ci appartengono a prescindere dalla nostra volontà di eliminazione del lato negativo della vita. Non a caso educhiamo i bambini fin da piccoli a scindere questi due aspetti dicendo loro di dividere i buoni dai cattivi, con l’illusione che il negativo da isolare (o punire) scompaia dalla vista, e si possa salvare il mondo. In realtà non vi è mai stata l’eliminazione del male con le prigioni o le esecuzioni capitali, nemmeno con le interdizioni o l’isolamento.

Non è «cura» solo quell’intervento clinico al quale chiediamo la guarigione dal male fisico, anche se, indubbiamente, la clinica che cura riesce a sollevarci dalla sofferenza e ci aiuta a gestire il dolore o la fatica dell’esistere. Questo «curare» è successivo alla preoccupazione per l’altro. Se primeggia, secondo il pensiero di Heidegger, quella cura è inautentica, perché potremmo dire che tende a occuparsi della malattia e non del malato. È autentica invece se ammette che non vi è sovranità sull’esistenza e ammette la fragilità come condizione dell’umano esserci.

La nostra vita, intimamente connessa con quella degli altri, ha inizio da una relazione, quella primaria con la madre che accudisce e dà forma all’IO fin dal primo giorno di vita, ed è questa che permette di sentire quanto l’esserci è nella relazione con l’altro. Si nasce alla vita perché c’è qualcuno che si prende cura di noi, ci guarda, sorride, ci ascolta e si pre-occupa. Dall’attenzione dell’altro si sviluppa la nostra capacità di sentire la vicenda umana.

Allora curare è saper ascoltare ma è anche sguardo vicino e di attenzione per poter vedere lontano. È comunicazione intima, educazione, attesa, intuizione con cui si possono attraversare le nebbie delle cose sconosciute. Prima di tutto è condivisione dell’esistenza e complicità nella relazione che serve a fare comunità sociale e educante e inventare ogni giorno il domani che ci attende.

Giuseppe Maiolo – Psicoanalista Università di Trento

Riproduzione riservata © Giornale di Brescia

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